Testimonianze da Poseidonia e da Fratte
p. 197-210
Texte intégral
1L’Università degli Studi di Salerno svolge da tempo ricerche sistematiche a Paestum e Fratte sia attraverso indagini sul terreno sia attraverso la revisione e la rilettura di vecchi contesti di scavo; la messa in sistema dei dati così ottenuti consente oggi alcune brevi riflessioni, da ritenersi ancora del tutto preliminari, sulla produzione nell’ambito di contesti sacri.
2Allo stato attuale delle ricerche a Poseidonia non si dispone di evidenze archeologiche consistenti, tuttavia l’analisi filologica dei contesti ha consentito di individuare materiali che costituiscono il riflesso di attività produttive nei santuari extra-urbani di Getsemani e di Albanella, e ai margini settentrionali di quello urbano meridionale, mentre piuttosto labili risultano le tracce individuate presso l’Heraion alla foce del Sele.
Fig. 1 - Paestum: dislocazione topografica dell’area sacra di Getsemani e di S. Nicola di Albanella.

Da De Caro 2015.
3Il primo è situato sulle pendici occidentali del Monte di Capaccio1, a circa 3,5 km a sud-est dalla città, su un’altura che restituisce un’ampia veduta della piana del Sele e del golfo di Salerno (fig. 1). Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, durante i lavori per la costruzione di un imponente complesso religioso, furono recuperati numerosi reperti archeologici e i resti di una struttura monumentale ormai non più in giacitura primaria2. Il contesto, posto nella chora pestana e caratterizzato dal punto di vista paesaggistico da una zona boschiva ricca di polle di acqua sorgiva, di grotte e anfratti, fu interpretato da E. Greco – sulla base di alcuni spunti offerti da Diodoro – come un’area sacra dedicata ad Artemide3. Esso restituisce tracce di frequentazione dalle prime fasi di vita della colonia greca fino al III sec. a.C.4, momento del definitivo abbandono dell’area. Tra i materiali più antichi spiccano le coppe ioniche di tipo B2 e Panionion, le kotylai corinzie o di imitazione e i kantharoi di bucchero; al terzo quarto del VI sec. a.C. è ascrivibile una statuina che rappresenta una figura femminile in trono con le braccia protese in avanti, tipologicamente affine a quelle attestate a Santa Venera. A partire dalla seconda metà del VI e fino agli inizi del IV sec. a.C. il vaso maggiormente documentato è l’hydria (fig. 2), soprattutto nella versione miniaturistica, con decorazione a fasce, parzialmente verniciata o semplicemente acroma, che testimonia l’esistenza di pratiche rituali legate all’acqua, reperibile in abbondanza nel territorio. Alla fine del V sec. a.C. si assiste a un calo della produzione che riprende nel corso del secolo successivo, quando sono attestati numerosi skyphoi a vernice nera e thymiateria, ancora una volta associati al culto delle acque. A questo periodo risalgono alcuni esemplari di ceramica a figure rosse pestana vasellame da cucina, mentre le poche statuette rinvenute rappresentano figure femminili stanti e una sola testina di “tanagrina”. Non mancano, tra gli oggetti votivi, pesi da telaio, ghiande missile, oscilla, appliques e anelli in bronzo e alcuni vaghi di collana in ambra. L’ultima fase di vita, datata tra la fine del IV e i primi decenni del III sec. a.C., è rappresentata per lo più da unguentari a fasce.
Fig. 2 - Paestum. Materiali ceramici dell’area sacra di Getsemani.

Da De Caro 2015.
4Tra i materiali che testimoniano l’esistenza di un’attività produttiva legata al santuario si annoverano resti di quarzo grezzo o con tracce di lavorazione, ma soprattutto tre distanziatori, due bocche di mantice, un test piece e due scarti di vasi mal cotti. L’indicatore di produzione più antico è costituito dal test piece: un’hydriska acroma dalla parete combusta con foro praticato dopo la cottura per l’immissione dell’uncino. Gli scarti sono relativi a forme ben rappresentate nel contesto e documentano la fase cronologica compresa fra IV e III sec. a.C.: un piede di skyphos miniaturistico a vernice nera della serie 4311, dal corpo ceramico bruciato e saldato a un grumo di argilla, e un unguentario a fasce del tipo IV della Forti ascrivibile alla metà avanzata del III sec. a.C., anch’esso bruciato e con piede e collo deformati. Questi, insieme ai tre sostegni a campana, sono utili, secondo le proposte interpretative di V. Cracolici5, all’impilaggio degli skyphoi, documentando che l’attività continuava anche in questa fase cronologica.
5In sostanza a Getsemani sembrerebbe esistere un’officina connessa al luogo di culto la cui attività si esplica per un lungo periodo di tempo compreso almeno dalla metà del VI a quella del III sec. a.C. quando, in seguito alla deduzione della colonia latina, l’area sacra viene abbandonata.
6Indagato da Marina Cipriani dal 1979 al 19866, il santuario di San Nicola di Albanella (fig. 1), dedicato al culto di Demetra e attivo tra la fine del VI e la fine del IV sec. a.C., sorge a 13 km a nord-est dal centro urbano in un punto strategico che collega la costa al territorio interno e ai Monti Alburni; anch’esso è ubicato in una zona estremamente ricca di risorse idriche grazie all’affioramento di polle sorgive.
7La struttura sacra è costituita da un recinto rettangolare in pietra di circa 70 mq, suddiviso in due parti da due brevi setti murari in asse con sei focolari utilizzati per i sacrifici (fig. 3). Al momento della scoperta l’edificio era obliterato da una grande colmata, gettata in un unico momento alla fine del IV sec. a.C., contenente una cospicua quantità di ex uoto, principalmente coroplastica. Quest’ultima è rappresentata da statuette di offerenti sia femminili sia maschili; le prime reggono un porcellino davanti al petto, una cista o un piatto con dolci, gli altri sono caratterizzati da efebi recanti un porcellino o dotati di piatto con frutta. Le forme vascolari più antiche consistono soprattutto in krateriskoi, skyphoi e in minore quantità hydriskai mentre, nel corso del IV sec. a.C. è attestata la ceramica da cucina con evidenti tracce di bruciato – pentole, olle, bacini e fornelli - impiegata per le pratiche rituali e i pasti comuni.
Fig. 3 - Paestum. Area sacra di S. Nicola di Albanella: a. Struttura; b. Coroplastica.

8La presenza di numerose statuette mal cotte, ma soprattutto il ritrovamento di uno scarico con frammenti di matrici e di volta di fornace testimoniano la presenza di almeno un’officina che lavorava per il santuario, documentata peraltro da altri resti di fornace, rinvenuti durante prospezioni di superficie a circa 250 m a ovest dell’ingresso dell’area sacra. L’elevato numero di statuette e la presenza di matrici lasciano ipotizzare una produzione coroplastica ben distinguibile dal resto delle produzioni pestane sia per caratteri iconografici e stilistici sia per la fattura, frutto di un’elaborazione locale che risponde a specifiche esigenze del culto7. Delle due matrici una è inerente a una statuetta difficilmente leggibile e pertanto interpretata essa stessa come uno scarto; l’altra è un frammento di forma conica pertinente a una statua di grandi dimensioni e presenta una fiamma di face o una spiga8. Tra le statuette con difetti di cottura si segnala quella dall’argilla totalmente verdastra esposta al Museo Archeologico Nazionale di Paestum, raffigurante una figura maschile di offerente recante un piatto nella mano sinistra, ricomposta e in parte lacunosa.
9Presso l’Heraion alla foce del Sele purtroppo, allo stato attuale delle indagini, non sono stati rinvenuti resti consistenti di impianti produttivi, ma solo labili tracce che indiziano l’esistenza di attività artigianali in una zona non lontana dal santuario9. Quattro distanziatori di fornace erano presenti nei due bothroi di età lucana posti uno a sud-ovest del tempio e l’altro nella parte nord-orientale del santuario ma, essendo stati depositati come ex voto sono privati del loro valore di indicatori di produzione10.
10Tuttavia, la revisione dei materiali dei vecchi scavi da parte dell’équipe dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ha consentito di individuare, insieme ai numerosi oggetti catalogati, scarti di fornace, strumenti, quali matrici e bocche di mantice, e scorie11; tali manufatti, portati alla luce nel corso delle indagini archeologiche effettuate nella prima metà del Novecento da P. Zancani Montuoro e U. Zanotti Bianco, sono purtroppo privi dello specifico contesto di provenienza ma documentano comunque la presenza di officine nell’area sacra. Qui è stata infatti individuata una produzione, soprattutto di ceramica a vernice nera, realizzata sul posto e adoperata dal santuario stesso12.
Fig. 4 - Paestum. Santuario urbano meridionale in evidenza l’area del Giardino romano e della Curia.

11Più interessante, anche se più problematico, è il contesto relativo alle strutture che occupano il margine settentrionale del santuario urbano meridionale, nell’area occupata dalla Curia (fig. 4). I dati riguardano la fornace rinvenuta agli inizi degli anni Settanta del Novecento dalla Missione italo-francese guidata da E. Greco e D. Theodorescou e in parte già editi in Poseidonia-Paestum I. La revisione effettuata da M.L. Rizzo nell’ambito della ricerca di dottorato sulle aree artigianali delle città della Magna Grecia offre alcuni elementi utili ad affermare che la fornace è parte di un ergasterion a cui si riferiscono anche i tre pozzi rinvenuti all’estremità occidentale della Curia, a breve distanza tra loro13. Queste strutture sono stratigraficamente in fase con una stoà stretta e lunga orientata in senso est/ovest, che definisce il limite tra l’agorà e il santuario urbano meridionale. Dei tre pozzi, due avevano la funzione di captare l’acqua di falda e sono stati scavati fino a una profondità di circa 10 m mentre il terzo, all’altezza di 3 m, risulta collegato a un sistema di canalizzazioni sotterraneo. La fornace, di forma circolare e del diametro di circa un metro, è costituita da uno zoccolo di pietre e tegole su cui poggia un anello di blocchetti; nella camera di combustione sono disposti bracci radiali in terracotta che costituivano l’appoggio del piano di cottura. I materiali sul fondo erano ricoperti dal crollo della volta mentre sul piano della fornace è stato recuperato un frammento di ceramica a vernice nera sovraddipinta che ne data l’abbandono entro il secondo quarto del III sec. a.C.; sempre sul fondo, oltre a questo frammento vi erano uno strumento triangolare in terracotta, uno appuntito in ferro, uno scarto pertinente a un dito fittile e un frammento di coroplastica, forse l’ala di un erote. La presenza sia nel riempimento che in prossimità della fornace di altre dita, di cui alcune stracotte e altre saldate a un grosso pezzo di argilla, insieme a una matrice di statuetta femminile, lasciano supporre che quest’officina producesse ex voto. La revisione di tutti i materiali rinvenuti negli anni Cinquanta del secolo scorso da P.C. Sestieri nell’area del cosiddetto “Giardino romano” in corso di realizzazione, suggerisce che l’impianto artigianale fosse più ampio14. Tra materiali provenienti da quest’area, mai editi in maniera esaustiva, prevalgono ex voto che sembrano destinati a un culto salutare: uteri, genitali maschili, piedi e dita fittili, statuette femminili – alcune delle quali raffigurate in evidente stato di gravidanza – e pupi in fasce. I dati recuperati all’interno della fornace ci consentono di affermare che questo tipo di materiali viene prodotto a partire almeno dalla fine del IV sec. a.C. e prosegue anche dopo la deduzione della colonia latina. L’obiettivo che ci proponiamo con le ricerche ancora in corso, che dovranno necessariamente integrarsi con quelli dell’area nord-orientale del santuario prodotti dalla Missione guidata da A. Rouveret e M. Cipriani, è quello di definire meglio l’estensione dell’area occupata dalle attività artigianali rispetto ai luoghi di culto come il vicino Asklepieion o gli altri edifici limitrofi, anche in considerazione della presenza dei medesimi tipi coroplastici e delle loro matrici nel riempimento dell’Ekklesiasterion15.
12Per quanto riguarda più specificamente l’officina, ci sembra interessante sottolineare che mentre sono numerosi gli indicatori di produzione legati alla coroplastica, per la ceramica i documenti si limitano a un solo distanziatore; tuttavia negli strati di abbandono e nel riempimento dei pozzi sono stati rinvenuti numerosi vasi a vernice nera con evidenti difetti di cottura quali arrossamenti della vernice e fiammature, che non possono però essere considerati veri e propri scarti, ma oggetti di seconda scelta che verosimilmente entravano comunque a far parte del circolo del consumo: coppe, coppette e piatti tipologicamente del tutto del tutto simili a quelli rinvenuti nel contesto del “Giardino Romano” dove comunque la ceramica è numericamente di gran lunga inferiore alla coroplastica.
13Fra i rinvenimenti ceramici si segnala la presenza di numerosi esemplari di Heraklesschalen, coppe caratterizzate da stampigli con raffigurazione di Ercole stante, impressa a rilievo nel fondo della vasca interna, simili a quelle diffuse nei territori colonizzati da Roma nel corso della seconda metà del III sec. a.C.16 Note a Paestum esclusivamente da quest’area, le Heraklesschalen sono prodotte localmente, come hanno confermato le analisi archeometriche, sebbene non siamo in grado di affermare con certezza se all’interno del santuario. Un dato che tuttavia arricchisce il quadro della produzione delle prime fasi di vita della colonia latina è offerto da un bollo, probabilmente un marchio di fabbrica, che decora i fondi di alcuni vasi a vernice nera rinvenuti in contesto con le Heraklesschalen. Il bollo era già noto al Morel che lo interpretava come il frutto di una mescolanza di lettere greche e latine dovuta a una tradizione locale preromana. Per tale bollo, che per il modo in cui è concepito trova generici confronti con esemplari rinvenuti a Fondo Ruozzo a Teano, è forse possibile prendere in considerazione una lettura in lingua osca redatta in alfabeto “nazionale”, un’ipotesi che apre numerosi interrogativi relativi all’organizzazione e alle modalità di produzione delle officine ceramiche locali di età medio-repubblicana. Sebbene, infatti, sia ormai assodato che negli anni successivi alla deduzione coloniale il patrimonio formale tradizionale sembra adeguarsi a una committenza che esprime un gusto in linea con quello medio-italico e laziale, l’interrogativo che rimane aperto è se ciò sia dovuto agli artigiani locali che rinnovano la propria produzione adattandola a un gusto nuovo, o sia invece dovuto alla presenza di officinatores venuti da fuori che impiantano nuove officine17.
14A Fratte le testimonianze di attività produttive sono documentate sia dai vecchi scavi di P. C. Sestieri in un’area poco distante dall’attuale piazza M. Galdi, sia dalla cd. Acropoli (fig. 5), a partire dalla seconda metà del IV sec. quando l’abitato assume una nuova forma che, pur riutilizzando in parte le strutture preesistenti, segna una netta discontinuità con il periodo precedente.
Fig. 5 - Fratte. Dislocazione topografica dell’area sacra delle Case Popolari e dell’Acropoli.

15La prima area sacra fu individuata in occasione della costruzione delle Case Popolari in Via Capone, a est della piazza moderna del quartiere di Fratte18, dove fu rinvenuto un tratto stradale realizzato con “rozze basole”, delimitato da due lunghi muri in tufo (lungh. 5,79; largh. 1,65) in direzione nord-est/sud-ovest19. Lo spazio tra i due muri era completamente riempito, per ca. 1,30 m, da uno scarico di materiali, costituito da ceramica, coroplastica e numerose terrecotte architettoniche databili fra la metà del VI e il II sec. a.C., ricoperto da uno strato di riporto20. Stando alle pubblicazioni di P.C. Sestieri sembrerebbe che nell’area fossero installati piccoli ergasteria, come documenta il rinvenimento di una fornace dal diametro di 1,30 m, realizzata con pietre di piccole dimensioni legate da argilla, nonché di numerosi strumenti utilizzati per attività artigianali. I dati disponibili lasciano ipotizzare che con ogni probabilità in tale area fossero prodotte terrecotte figurate anche di grandi dimensioni, alcune delle quali trovano confronto con gli esemplari di Albanella, nonché piccoli contenitori decorati – per lo più lekythoi, bottiglie, unguentari – relativi a tipologie non diffuse nei contesti di Fratte (fig. 6).
Fig. 6 - Fratte. L’area sacra delle Case Popolari: pianta e coroplastica.

Pianta da Sestieri 1952.
16Più completi allo stato attuale sono i dati provenienti dall’Acropoli, grazie alle numerose campagne di scavo e di indagini speleologiche pertinenti a strutture ipogee, svolte negli ultimi anni dall’equipe dell’Università degli Studi di Salerno. Dati particolarmente significativi emergono nella porzione centrale della collina, nello spazio accanto alla casa-palazzo, occupato in età arcaica da una struttura a pianta rettangolare di ca. m 16,50 × 6,80, disposta in senso nord-sud, e articolata in due vani21. La pianta di questo edificio è stata assimilata a una casa a pastàs, anche se non perfettamente rispondente al modello canonico; i pochi lembi di battuto pavimentale individuati hanno restituito frammenti ceramici che circoscrivono la vita di questo edificio tra gli ultimi anni del VI e la metà del V sec. a.C. Una conferma per questa cronologia si ricava dai materiali restituiti dallo scavo di un pozzo che insiste nello stesso spazio; del riempimento di tale pozzo, infatti, è stato possibile riconoscere, grazie a un approccio di microstratigrafia, gli strati d’uso, di riempimento e di chiusura, distinguendo il materiale caduto involontariamente quando la struttura era ancora funzionante come punto di approvvigionamento idrico, da quello gettato volontariamente quando la struttura era stata defunzionalizzata22. Lo strato d’uso, databile fra la fine del VI e i primi decenni del V sec. a.C., è coevo alla fase più antica di occupazione della zona. Dal livello più profondo a contatto con la falda (sub-unità e) provengono solo forme vascolari utili alla raccolta dell’acqua databili tra la fine del VI e la metà del V sec. a.C. In questo momento cronologico il pozzo cessò di svolgere la sua funzione primaria e fu sigillato con una consistente quantità di blocchi di tufo, disposti dalla quota di m 10, 40 a m 11,60 (sub-unità d), mescolati a tegole e frammenti ceramici. Questo dato rafforza l’ipotesi già avanzata, grazie alle indagini della casa-palazzo e degli altri pozzi dell’insediamento, che intorno alla metà del V sec. a.C. il sito fu apparentemente abbandonato. L’area è rioccupata e rivitalizzata dalla metà del IV fino ai primi decenni del III sec. a.C.: la sequenza stratigrafica e i materiali recuperati hanno consentito di comprendere le forme e di definire le funzioni delle strutture dell’area in questo arco cronologico. In particolare un nuovo edificio si imposta su quello arcaico sfruttandone i muri, ricalcandone le dimensioni e lo sviluppo planimetrico, seppur con una diversa ripartizione degli ambienti23. In particolare, l’ambiente meridionale è separato da un tramezzo che divide la parte in cui insiste il pozzo, utilizzato ora come punto di scarico, da un altro piccolo vano sul cui piano pavimentale è stata rinvenuta in situ una vasca di decantazione, un grande contenitore, un pithos in giacitura primaria e pani di argilla concotta24.
17La presenza di un’attività artigianale in questa zona è ben documentata dai resti di una fornace a pianta circolare, posta nella parte nord-orientale, realizzata in blocchetti di tufo, argilla e materiale deperibile25. Di tale struttura rimane il praefurnium e parte della camera di combustione: il primo, aperto sul lato occidentale, è largo ca. 0,70 m e conservato per una lunghezza di ca. 0,60 m ed è definito da due spallette di concotto, di colore rossastro e consistenza friabile. Tali spallette costituivano probabilmente il rivestimento interno delle pareti, delle quali sono state individuate labili tracce in corrispondenza del perimetro della struttura. Il piano del praefurnium era coperto da resti di cenere, probabili residui del combustibile, mescolati a frammenti ceramici. La camera di combustione aveva un diametro massimo di ca. 2 m ed era realizzata in blocchi di tufo disposti in maniera circolare e tagliati a forma di conci con la parte interna a profilo concavo, come documenta l’unico filare conservato del lato occidentale; le pareti interne erano rivestite da un paramento realizzato in argilla cruda, solidificatasi al contatto con il calore. Il piano della camera era coperto da resti di cenere e ha restituito parte di uno strumento di argilla a sezione triangolare, parte di una coppetta acroma e una parete di ceramica con fasce in vernice diluita di color bruno, caratterizzata su un lato da un foro, peculiarità che ha consentito di identificare l’oggetto come un test piece26. Non abbiamo elementi per stabilire l’altezza delle pareti del praefurnium e della camera di combustione, che certamente erano a livello del terreno e non interrate, né per ipotizzare lo sviluppo di quella di cottura di cui sono stati recuperati solo resti del piano forato. I pochi dati a disposizione hanno consentito, tuttavia, di classificarla come una fornace verticale a pianta centrale e di ricondurla alla Categoria I di N. Di Caprio27.
18Nella fase sannitica, vale a dire tra la fine del IV e i primi decenni del III sec. a.C., il pozzo non è più funzionante e diviene ricettacolo di immondizia. Dai livelli riferibili a questa fase proviene un’alta percentuale di vernice nera riferibile a pochi tipi ben attestati a Fratte in questo arco cronologico, nonché un gruppo di frammenti ceramici caratterizzati da un’argilla malcotta – identificabili come scarti di fornace – e una bocca di mantice frammentaria (fig. 7)28. Tali oggetti costituiscono il riflesso dell’attività artigianale che veniva svolta poco distante - proprio nell’ambiente adiacente al pozzo.
Fig. 7 - Fratte. Planimetria dell’Acropoli: in evidenza l’area artigianale e l’area sacra; materiali scartati dal pozzo 2171.

Planimetria da Fratte 2009.
19Immediatamente a ovest e a una quota più alta è posta, sin dall’età arcaica, un’area a carattere sacro che nel corso della seconda metà del IV sec. a.C. viene monumentalizzata – come indicano alcuni significativi documenti quali ad esempio il noto clipeo di Eracle e il leone Nemeo29. Al di sotto di un edificio a pianta rettangolare articolato in più vani corre un complesso sistema idrico costituito da canali superficiali e da una fitta rete di pozzi verticali e di due cunicoli sotterranei da dove proviene la documentazione materiale più significativa della fase sannitica30.
20Di particolare interesse si è rivelato il riempimento dei due cunicoli costituito da materiali architettonici, tra cui spiccano due antefisse con testa di Atena con elmo frigio, alcune iscrizioni di offerta e di dedica con il nome dell’offerente o con Eracle, oggetti fittili in funzione di ex voto, come un infante dormiente in culla, una donna fiore, un frammento di applique relativo a una figura femminile con porcellino e una matrice cilindrica per la bollatura di manufatti ceramici. La maggior parte dei rinvenimenti è però costituita da vasi destinati alla preparazione e alla cottura dei cibi e di ceramica fine, prevalentemente a vernice nera, pertinente a servizi da mensa, sebbene non manchino oggetti legati alla conservazione e al trasporto degli alimenti e i piccoli contenitori. Particolarmente interessanti al fine delle nostre riflessioni sono i vasi da mensa – coppe di grandi e medie dimensioni, skyphoi e un elevatissimo numero di piatti – tipologicamente simili a quelli che risultano prodotti nell’area poco distante e di cui sono stati rinvenuti gli scarti nel pozzo. Il riscontro della morfo-tipologia di questi vasi con quelli rinvenuti scartati e malcotti nei livelli di riempimento del pozzo dell’area artigianale, infatti, lasciano ipotizzare che la produzione di questo ergasterion fosse destinata anche alle pratiche rituali. Un ulteriore prova è costituita dal ritrovamento di uno scarto di piatto a labbro estroflesso di ridotte dimensioni rispetto a quelli generalmente diffusi nei contesti abitativi. Questo piatto in questa versione dimensionale è la forma più attestata nel contesto dei cunicoli, all’interno del quale è stato interpretato non come pertinente ai servizi da mensa, ma come vaso destinato a pratiche rituali31.
21Dai dati appena presentati dunque, pur nella consapevolezza dei limiti della documentazione disponibile e dei numerosi problemi che restano ancora aperti, è possibile trarre alcune considerazioni. I tre contesti pestani, al momento gli unici che offrono testimonianze di attività produttive all’interno di aree sacre, non consentono di ricostruire l’articolazione spaziale degli ergasteria, soprattutto in relazione all’organizzazione stessa dei santuari. Getsemani è uno dei più antichi e, seppur con tutti i limiti di uno scavo non sistematico, documenta sin dalla fine del VI sec. a.C. una produzione capace di adeguarsi nel corso del tempo ai cambiamenti delle pratiche rituali. Ad Albanella le attività produttive sono riferibili prevalentemente alla fase di vita di età lucana e sono relative alla realizzazione di specifici tipi coroplastici. La coroplastica costituisce la produzione principale anche dell’area ubicata a nord-est del santuario meridionale, dove i segni di un’attività artigianale, pur essendo più consistenti rispetto ai precedenti, non consentono di comprendere con chiarezza la portata del fenomeno produttivo. A oggi le informazioni recuperate consentono di ipotizzare che l’intera area sia da collegare a un culto salutifero, probabilmente da ricondurre al vicino Asklepieion, a cui si associa anche la presenza di Eracle. L’eroe divinizzato è venerato in quest’area verosimilmente già in età lucana, come suggeriscono i rinvenimenti in bronzo di piccole clave e di Ercolini di tipo italico, e il suo culto è attestato nelle prime fasi di vita della colonia latina dalle Heraklesschalen32. Il quadro ricostruito per Paestum, in particolare quello del santuario meridionale, si arricchirebbe con i dati provenienti dall’esame sistematico delle stipi votive dei santuari urbani che offrirebbero ulteriori elementi per riflessioni di più ampio respiro.
22Ancora più limitati i dati provenienti dal centro di Fratte e, al momento, relativi all’arco cronologico che va dalla seconda metà del IV secolo, quando nell’abitato si registrano profondi mutamenti, ai primi decenni del III sec. a. C. quando cessa di esistere. Entrambe le aree sono note solo parzialmente e anche in questo caso non consentono di comprendere l’organizzazione degli spazi produttivi in relazione ai santuari. Nell’area sacra individuata nei pressi delle Case Popolari erano con ogni verosimiglianza prodotti sia coroplastica sia specifici contenitori ceramici, oggetti attestati a Fratte quasi esclusivamente da questo contesto. Piuttosto frammentari sono anche i dati provenienti dall’area sacra della cosiddetta Acropoli a cui possono essere riferiti i materiali ceramici utilizzati nelle pratiche cultuali e che, con ogni probabilità, erano realizzati nell’officina posta poco distante.
23È particolarmente interessante rilevare che in questo santuario è predominante Eracle, la cui presenza sembra rispondere a una tendenza che a partire dalla seconda metà del IV sec. a.C. si diffonde contraddistinguendo numerosi centri tirrenici. Se per Paestum i contenuti ideologici della nuova classe dominante si esprimono attraverso la riorganizzazione degli spazi sacri cittadini, nel piccolo centro lungo il fiume Irno sotto la nuova fisionomia di Eracle, un ristretto ceto dominante interviene chiaramente nella gestione e nel controllo sia degli spazi sacri sia di quelli produttivi33.
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Serritella 2015: A. Serritella, Discontinuità e continuità nelle produzioni ceramiche fra IV e III sec. a.C. (in F. Longo, A. Santoriello, A. Serritella, L. Tomay, Continuità e trasformazione attraverso l’analisi di due aree campione: il territorio beneventano e il Golfo di Salerno), in Atti Taranto LII, 2015, p. 301-319.
Serritella 2017: A. Serritella, Le Heraklesschalen di Paestum, in L. Cicala, B. Ferrara (dir.), «Kithon Lydios». Studi di storia e archeologia con Giovanna Greco, Pozzuoli, 2017, p. 269-277.
Serritella, Citera, Scafuro 2013: A. Serritella, E. Citera, M. Scafuro, Analisi dei contesti dal sistema idraulico di Fratte (SA), in Actas del I Congreso internacional sobre estudios cerámicos. Homenaje a la Dra. Mercedes Vegas (Cádiz, 1 al 5 de noviembre de 2010), Cádiz, 2013, p. 294-325.
Sestieri 1949: P.C. Sestieri, Scoperte a Fratte di Salerno, BdA, 34, 4, 1949, p. 343-350.
Sestieri 1952: P.C. Sestieri, Salerno. Scoperte archeologiche in località Fratte di Salerno, NSc, s. VIII, 6, 1952, p. 86-164.
Tocco Sciarelli et al. 1992: G. Tocco Sciarelli et al., Paestum. I santuari: Heraion alla foce del Sele, in Atti Taranto XXVII, p. 385-396.
Zancani Montuoro, Zanotti Bianco 1951: P. Zancani Montuoro, U. Zanotti Bianco, Heraion alle foci del Sele I. Il santuario, il tempio della dea: rilievi figurati vari, Roma, 1951.
Notes de bas de page
1 La località in cui sono stati recuperati i resti archeologici è nota col toponimo “Prima Quercia” e, nello specifico, “Chiusa del Principe”.
2 Tali materiali furono custoditi in situ dai sacerdoti fino al 1984, quando furono acquisiti dal Museo Archeologico Nazionale di Paestum, dove sono conservati ancora oggi; cf. De Caro 2015, p. 139, nota 76. Della struttura sono state messe in luce quattro basi squadrate di calcare con foro centrale per l’alloggiamento di pali lignei, trasferite dagli operai sotto le fondamenta della chiesa.
3 Greco 1992, p. 480-481.
4 De Caro 2015, p. 139-145: alla studiosa si deve lo studio filologico di tutti i materiali di Getsemani.
5 Cracolici 2003.
6 Cipriani 1988, 1989 e 1996.
7 Cipriani 1996, p. 233.
8 Cipriani 1989, p. 127.
9 Al momento della scoperta, nel 1935, P. Zancani Montuoro e U. Zanotti Bianco interpretarono l’edificio rettangolare, posto nella parte settentrionale del santuario e contiguo al portico di età lucana, come un’officina di figuli per la presenza di due fornelli all’interno; con l’avanzare delle indagini riformularono l’ipotesi considerandolo un monumento adibito alle lustrazioni; cf. Zancani Montuoro, Zanotti Bianco 1951. In seguito alle indagini dell’Università di Napoli Federico II guidate da G. Greco e più recentemente da B. Ferrara gli studiosi sono concordi nel ritenere tale edificio un luogo destinato al consumo di pasti comuni, tesi supportata dal rinvenimento di una cospicua quantità di vasellame da cucina e da mensa: cf. Greco, Ferrara 2008.
10 I pozzi votivi furono indagati da P. Zancani Montuoro e U. Zanotti Bianco negli anni 1935-1936; i materiali da essi provenienti sono stati studiati filologicamente, cf. Ferrara 2009.
11 La notizia è stata riportata da G. Tocco Sciarelli, J. de La Genière e G. Greco al Convegno di Taranto del 1987, dedicato a Poseidonia-Paestum: cf. Tocco Sciarelli et al. 1992, p. 395.
12 Si tratta di ceramica a vernice nera presente dalla fine del V sec. a.C. a tutta l’età ellenistica i cui esemplari sono soprattutto kylikes, coppe, piatti, skyphoi, saliere, oinochoai: cf. Tocco Sciarelli et al.1992.
13 Rizzo 2019, p. 192-194.
14 I contesti provenienti dall’area del Giardino Romano sono in corso di pubblicazione da parte di un’équipe dell’Università degli Studi di Salerno; un primo quadro di questi rinvenimenti è in Casalnuovo, Siani 2017. Per quest’area si veda inoltre Bertarelli Sestieri 1987-1988.
15 Poseidonia-Paestum II, p. 116-136.
16 Serritella 2017.
17 Serritella 2015.
18 Sestieri 1949; 1952. Un quadro di questo contesto è stato presentato da A. M. de Feo al Convegno Internazionale “Topografia e spazio del sacro nella Campania antica” organizzato dall’Università degli Studi di Salerno (Fisciano, 16-17 dicembre 2015).
19 Sestieri 1952, p. 12, fig. 3-4.
20 L’editore dello scavo ritenne che lo scarico fosse relativo a due diversi momenti poiché alla profondità di m 2,45 mostrava una diversa consistenza, sebbene non emersero altri elementi utili a distinguere, anche cronologicamente, i due livelli. La presenza di tracce di bruciato sulla maggior parte degli oggetti recuperati e sulle strutture murarie fece ipotizzare che lo scarico fosse la conseguenza di un “fatto d’armi” che causò la fine del sito.
21 Fratte 2011, p. 21-53.
22 Si tratta del pozzo 2171: Fratte 2011, p. 110-127.
23 Per le fasi di vita di questo edificio si veda Fratte 2011, p. 145-166.
24 Fratte 2011, p. 167-176.
25 Fratte 2011, p. 139-143.
26 Fratte 2011, p. 140, fig. 102, d.
27 Cuomo di Caprio 2007, p. 523.
28 Fratte 2011, p. 112.
29 Per questo noto documento si veda da ultimo Monda 2016, in particolare le p. 145-146.
30 Una presentazione preliminare di questo contesto è in Serritella, Citera, Scafuro 2013; una pianta aggiornata dell’area è in Monda 2016, p. 154, tav. II.
31 Serritella, Citera, Scafuro 2013.
32 A Paestum questo tipo di coppa compare esclusivamente in quest’area: cf. Serritella 2017.
33 Pontrandolfo 2017.
Auteurs
Università degli Studi di Salerno - Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale.
Università degli Studi di Salerno - Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale.
Università degli Studi di Salerno - Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale.

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