URL originale : https://books.openedition.org/efr/62527

Luoghi di potere e di memoria
La politica urbanistica e monumentale del comune di Roma nel secolo XII
p. 77-104
Résumés
Il contributo si propone di ricostruire e interpretare le dinamiche della politica urbanistica del comune di Roma nel XII secolo. Tre sono le tematiche prese in considerazione: 1. l’entità e i contenuti delle operazioni urbanistiche promosse dal comune; 2. il loro significato politico; 3. profili e habitus degli attori al vertice di ciascuna impresa. Dopo una ricognizione delle fonti, il lavoro si sofferma nello specifico su due precisi rapporti monumentali: quello tra il comune e le Mura Aureliane e quello tra la medesima istituzione e le colonne coclidi. Da lì, portando la riflessione su un piano più generale, arriva a cogliere non tanto una ben programmata «politica urbanistica», quanto piuttosto un’«urbanistica politica», cioè un movimento di appropriazione delle infrastrutture urbane e del «decoro di Roma» – decus o decor Urbis – con il chiaro intento di rappresentarsi agli occhi della collettività come nuovo potere pubblico. È dunque un intento politico, in molti casi, quello che si cela dietro le numerose attestazioni di «restauri» del patrimonio materiale dell’Urbe.
This contribution aims at understanding the urban programs of the Rome commune across the twelfth century. Three major themes have provided the underlying framework linking the various aspects of the paper: 1. the quality and contents of the urban operations promoted by the commune; 2. their political meaning; 3. the profile and habits (habitus) of the actors who supported urban projects. After exploring the available documentary and archaeological sources, this paper dwells specifically on the following two important relationships between Rome and its monuments, the first involving the Aurelianic Walls, and the second the ancient columns. The discussion is then extended to an overview of Rome’s relationship with its material heritage. The collected data reveal that there was no well-planned ‘urban politics’ at the time, but rather a ‘political urbanism’, namely a process of appropriation of infrastructures and ‘Rome’s decorum’ (decus or decor Urbis) with the intention of representing the commune as the new public power in the eyes of citizens. In many cases, therefore, ‘restoration works’ on Rome’s cultural heritage were motivated by political reasons.
Entrées d’index
Keywords : monuments, Middle Ages, city communes, Rome, cultural heritage
Parole chiave : monumenti, medioevo, comuni urbani, Roma, patrimonio
Note de l’auteur
Alla base del presente contributo è una riflessione portata avanti in comune dai due autori. Per quanto riguarda l’elaborazione del testo, l’introduzione e il primo paragrafo (sulle mura) si devono a Dario Internullo; il secondo paragrafo (sulle colonne) a Mariele Valci; relativamente al terzo e ultimo paragrafo, si devono a Mariele Valci i punti 1 e 2, a Dario Internullo il punto 3. Teniamo a ringraziare Sandro Carocci per gli utili consigli fornitici in occasione della stesura del testo.
Texte intégral
1Parlare della politica urbanistica di un comune medievale, oggi, non ha nessun profumo di originalità. Gli studiosi sono sempre più consapevoli, e nell’ultimo decennio più di prima, del valore particolare che le strutture materiali di un luogo, sia esso città, quasi-città, casale o castello possono assumere per riflessioni di storia politica. Quando però il tema viene indirizzato verso la città di Roma, ecco allora che si entra in una dimensione più fluida, fatta di dibattiti, scontri, sfumature, visioni e revisioni. Perché? Forse perché Roma è la città del papa, del sovrano pontefice, di colui che, nonostante i sussulti promossi dal basso negli anni ’40 del XII secolo, grazie a una resilienza e risorse senza paragoni riuscì prestissimo a recuperare le redini del governo cittadino e la gestione dell’urbanistica, per molti già con il noto patto del 1188.1 O forse perché qualsiasi studioso si trova di fronte a una sconcertante penuria di testimonianze: la Roma comunale, l’“altra Roma” per intenderci, è quasi completamente scomparsa, sia nelle fonti scritte sia, soprattutto, nella sua facies materiale, spazzata via dai continui rifacimenti del parco immobiliare urbano avvicendatisi nel corso dei secoli. O forse ancora perché la storiografia italiana sul tema, nata da un’impennata di entusiasmo risorgimentale italiano concomitante con la Breccia di Porta Pia, è stata successivamente attenuata, quasi per reazione, da tutti coloro che riconoscono al papato un ruolo fondamentale nel passato della città, specialmente nel medioevo e nell’età moderna. Non è un caso che i due libri che più di ogni altro lavoro scientifico hanno preso sul serio la Roma comunale nell’ultimo trentennio siano stati scritti, rispettivamente, da un francese e un inglese.2 Quale che sia la risposta, è proprio in vista dei problemi di fonti e della dialettica storiografica che un tema come la politica urbanistica del comune romano può risultare in un certo senso nuovo, specialmente se approfondito nel primissimo periodo di vita dell’istituzione, il XII secolo. È quanto abbiamo deciso di fare in questa sede, consapevoli l’una e l’altro di tutti i problemi menzionati, anche grazie a un’esperienza maturata nel corso di alcuni anni di ricerche su aspetti diversi della Roma tardomedievale, lavorando sia sulle fonti archeologiche e numismatiche (Valci) che su quelle manoscritte e documentarie (Internullo).
2La scelta ovviamente non ha potuto aggirare i problemi appena menzionati. Vale subito la pena di esplicitare che la prima grande difficoltà incontrata durante lo studio è data dalla notevole esiguità e frammentarietà delle fonti. Di cosa parliamo esattamente? Per quanto riguarda il tema prescelto, essenzialmente di: 1) un palazzo sul Campidoglio edificato alla fine degli anni ’40 del XII secolo, ma oggi molto diverso rispetto al suo primo volto medievale;3 2) due epigrafi apposte rispettivamente su un tratto delle Mura Aureliane nel 1157 e sul ponte Cestio nel 1191;4 3) di almeno una, ma forse di entrambe le colonne coclidi della città, cioè la Traiana e la Aureliana, poste dal comune sotto la propria tutela;5 4) di qualche decina di documenti emanati direttamente dal comune, parte del più ampio corpus documentario tramandato dalle istituzioni ecclesiastiche di Roma (circa 1500 documenti anteriori al 1200 di cui ben 750 relativi al solo XII secolo);6 5) i risultati delle indagini archeologiche condotte su alcuni settori di Roma.7
3Sebbene sia molto difficile individuare un tessuto connettivo per tutte queste testimonianze, il corpus allestito offre diversi dati utili a riflettere sui problemi generali che hanno indirizzato le ricerche del presente volume: esso può infatti dirci qualcosa in merito all’entità dei programmi di politica urbanistica e monumentale di un’istituzione pubblica, nel nostro caso il comune medievale (1); può far riflettere sul significato politico di ciascuna operazione individuata (2); può infine rivelare i nomi e la fisionomia degli attori per così dire al vertice delle imprese (3). Abbiamo scelto pertanto di considerare tutti e tre questi aspetti, tenendo però conto delle particolarità del periodo: sebbene per alcuni studiosi il comune nasca già maturo nella nota rivolta degli anni 1143-1144, la sua formazione nella realtà dei fatti consiste, come in tutte le altre città note, in un processo ben più lento e tortuoso rispetto a un arco cronologico così ristretto. Le origini del processo potrebbero individuarsi già nel tardo XI secolo, mentre i primi punti di arrivo concreti si colgono a partire dagli anni Venti del XII. Ci è sembrato perciò necessario tentare anzitutto di collocare ciascuna impresa individuata all’interno di questo più generale percorso di costruzione politica. Inoltre, poiché l’affermazione del comune interagisce fin da subito con il tradizionale potere pubblico cittadino, quello del papa (e delle chiese), ci è sembrato utile ricercare in ciascuna operazione analizzata la possibile dialettica tra il potere tradizionale e quello in via di costruzione. Terzo, ed è la nostra ultima considerazione metodologica, dato che la specificità del corpus pone seri ostacoli alla possibilità di costruire un quadro organico e coerente, abbiamo deciso di organizzare il nucleo delle nostre riflessioni attorno all’analisi di due specifici “rapporti monumentali” relativi al comune: quello con le Mura Aureliane e quello con le colonne coclidi. Ciascuna analisi partirà da una fonte scritta specifica – un’epigrafe per le Mura e un documento d’archivio per le colonne – per enucleare, nella maniera più esplicita possibile e considerando la relazione con le altre fonti, sia la patina culturale del testo, sia i contenuti e gli attori dell’impresa, sia infine l’eventuale dialettica con il potere ecclesiastico. Soltanto dopo aver còlto in profondità questi aspetti specifici e contestuali cercheremo, in una fase conclusiva e di sintesi, di portare la riflessione su un piano più generale, in modo da cogliere così il significato più profondo della politica urbanistica e monumentale del Senato e dei suoi protagonisti.
4Prima di passare all’analisi dei due rapporti specifici, e anche per meglio inserirli in un contesto storico più ampio, ci sembra utile spendere qualche parola in più sul processo di formazione del Senato. Lo studio della documentazione e delle prassi documentarie e giudiziarie del comune da una parte, la ricostruzione delle sue emissioni monetarie dall’altra ci portano a sottolineare due punti in particolare. Il primo punto è che la rivoluzione del 1143-1144, la renovatio Senatus, fu sì un atto forte, ma forse meno di quanto si sia pensato per ciò che concerne le strutture della nuova istituzione. Diversi studi hanno del resto già messo in evidenza come forme di organizzazione politica laica avessero iniziato a prender piede già in occasione della ridefinizione del papato durante la seconda metà dell’XI secolo e la prima metà del XII.8 Il secondo punto, forse meno in continuità con la storiografia precedente, è che a nostro avviso quel momento istituzionale vada ridimensionato anche se guardiamo agli anni successivi: senza nulla togliere alla sua forte carica avversiva nei confronti del governo papale, il comune non nasce già pienamente funzionante. Ci vogliono anni per non dire decenni prima che la sua autorità riesca a farsi riconoscere dall’intera collettività urbana, come ci vogliono anni prima che le sue strutture amministrative siano pienamente operative e i suoi ambiti di azione delineati, regolarizzati e riconosciuti. Almeno per quanto riguarda le strutture amministrative, la giustizia, la produzione documentaria e la produzione monetaria, gli attori della nuova istituzione laica sembrano aver innovato molto meno di quanto non si possa pensare dalla lettura delle fonti cronachistiche: le procedure giudiziarie e la produzione documentaria sembrano guardare inizialmente a modelli papali, imperiali e soprattutto prefettizi – e ricordiamolo, il prefetto urbano dipendeva comunque dal papa –, da cui si distanziano soltanto lentamente. Similmente, i senatori importano per alcuni decenni emissioni provenienti da zecche italiane o addirittura francesi prima di creare una moneta propria. Persino la scelta di costruire un palazzo di governo sul Campidoglio, di norma posta in relazione con il prestigio dell’antico tabularium e con la presenza di un mercato cittadino nei pressi, sembra in realtà ricollegarsi a motivi più pragmatici, e cioè che sia sul colle sia nei suoi dintorni sembra essersi sviluppato già tra il 1084 e il 1130 un quartiere giudiziario che aveva il suo perno nella prefettura urbana.9 Insomma, il Senato non crea ex novo, il senato riplasma, rinnova e ridefinisce, parte da un modello consolidato per risolvere problemi pratici e solo con il tempo se ne discosta attraverso scelte consapevoli. La sua stessa essenza è legata a un atto di restauro, una restauratio o renovatio come dicono i documenti ufficiali. Cercheremo allora, con le nostre analisi, di meglio comprendere anche questa particolare attitudine a muoversi nella tradizione e a inserire i propri programmi politici all’interno di una generale pratica del “restauro”.
Un’epigrafe: le mura...
5In corrispondenza di Porta Metronia, sulla facciata interna delle Mura Aureliane si trova oggi un’epigrafe (fig. 1), datata 1157, che ricorda alcuni lavori edilizi promossi dal comune di Roma:
Regione di S. Angelo. Nell’anno 1157 dall’incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, il Senato e il Popolo romano hanno restaurato queste mura, rovinate dalla vecchiaia. Senatori: Sassone, Giovanni di Alberico, Ruggero Boccacane, Pinzo, Filippo, Giovanni di Parenzo, Pietro Diotisalvi, Cencio di Ansoino, Rainaldo Romano, Nicola Mannetto.10
Fig. 1. Epigrafe presso Porta Metronia (1157), foto degli autori.

6Un primo elemento che di questa iscrizione cattura l’attenzione di chi studia il comune romano è il suo basso grado di formalità.11 Per quanto la scrittura faccia uso di abbreviazioni, specialmente nella prima parte più formulare, l’impaginazione del testo risulta irregolare, così come irregolare risulta la disposizione delle lettere all’interno di ciascun rigo. Similmente, nella seconda parte, quella meno formulare, i nomi dei senatori sembrano quasi pronunciati in volgare romanesco. Come interpretare questa fluidità? Probabilmente come frutto di competenze non particolarmente elevate dal punto di vista professionale, e forse più in generale come espressione di un’istituzione ancora in via di formazione e alla ricerca di canali di espressione adeguati ai propri progetti. La patina romanesca dei nomi, poi, sembra ancora trascinare dietro di sé l’oralità assembleare con cui quel progetto e i responsabili della sua esecuzione erano stati ratificati. Qualcosa che si discosta molto dall’altra epigrafe del nostro corpus, composta nel 1191 per commemorare un restauro del ponte Cestio (fig. 2). Lì il grado di formalità è decisamente più elevato: essendo anch’essa commissionata da un senatore, possiamo pensare che in quella data il processo di regolarizzazione della comunicazione epigrafica fosse compiuto.12
Fig. 2. Epigrafe sul Ponte Cestio (1191), foto degli autori.

7Prima di passare al contenuto conviene esplicitare fin da subito un problema: non è affatto certo che la collocazione attuale dell’epigrafe di Porta Metronia coincida con quella originaria. Alcuni studiosi hanno di recente posto l’accento sul fatto che questa lastra coabita, sopra la porta, con un’altra più tarda del 1579, e che entrambe sono alloggiate con la medesima tecnica a incasso su una muratura uniforme, anch’essa plausibilmente di età moderna.13 Poiché l’epigrafe del 1579 è commissionata da un membro della famiglia Mannetti e si riallaccia esplicitamente a uno dei senatori che hanno commissionato la lastra nel 1157, non è escluso che ciò che vediamo oggi sia frutto di uno spostamento di età moderna. Stando così le cose, non è più possibile oggi collegare in maniera diretta la nostra fonte al ben noto lavoro idrico della “Marana”, il canale che dal XII secolo in poi attraversava Porta Metronia in direzione del Circo Massimo.14
8Per quanto riguarda il contenuto, il significato letterale dell’epigrafe è piuttosto chiaro: il Senato e il Popolo di Roma, binomio che il comune ha scelto per autodefinirsi, hanno promosso o perlomeno patrocinato un’azione di restauro sulle Mura Aureliane, deteriorate dalla “vecchiaia” (vetustas).15 In questo senso, l’epigrafe si sposa piuttosto bene con i risultati di una serie di indagini archeologiche effettuate da diversi studiosi e di recente aggiornate da David Mercuri e Alessandra Molinari. Datano infatti al XII e al primo XIII secolo alcuni interventi di restauro delle mura caratterizzati in alcuni casi dall’impiego di bozzette di pietra alternate con filari di mattoni (opera listata), in altri da scaglie di piccola dimensione che adoperano tufo, selce e travertino, in altri ancora dall’inserzione di pezzi “speciali” di reimpiego, sovente marmorei. Gli interventi, presenti in diversi settori delle Mura, sono evidenti soprattutto nel tratto meridionale della cinta. Non necessariamente le evidenze archeologiche devono coincidere in toto con la campagna di interventi promossa dal comune tra la seconda metà del XII secolo e la prima metà del XIII, dato che anche i papi promossero interventi edilizi pubblici nella prima metà del XII secolo. Tuttavia, almeno gli ampi tratti di muratura in opera listata che si trovano nei tratti prossimi a Porta Metronia, come anche alcuni altri ovest di Porta Appia, datati con maggior precisione tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII sulla base delle malte, sono senz’altro da attribuire a questa prima campagna di interventi comunali. Anche diversi interventi a scaglie e le inserzioni marmoree potrebbero esser ricondotti alla committenza comunale, data la loro convergenza con le evidenze delle torri dei coevi casali della Campagna Romana, fondati e gestiti dai milites, il gruppo sociale protagonista del Senato. Doveva del resto trattarsi di una serie di interventi molto significativa, data la sua emersione nitida nella documentazione d’archivio e dato anche l’ingresso di essa in una memoria perenne tramite, appunto, la nostra epigrafe.16
9Facciamo poi notare che l’iscrizione si apre con la menzione di una regio, quella di Sant’Angelo: pur non essendo oggi chiara la collocazione originaria dell’iscrizione, è opportuno rilevare questa presenza. Apparentemente sembra trattarsi di un’indicazione topografica, ma non è affatto escluso e anzi riteniamo probabile che essa costituisca piuttosto un riferimento politico. Da altre fonti sappiamo infatti che le operazioni politiche e militari del Senato si svolgono e si svolgeranno a partire da un coordinamento delle comunità micropolitiche chiamate regiones (o “rioni”), e delle contradae al loro interno.17 Come ha già ben ipotizzato Katarina Bolle, tutto avviene insomma come se la seduta dell’assemblea senatoria dalla quale emerse l’ordine, ratificato da dieci senatores consiliarii, fosse stata risolta tramite l’affidamento della gestione di un settore delle mura a una specifica regio, appunto quella di S. Angelo.18
10Cosa significa, dal punto di vista politico, restaurare le mura di Roma? Gli studi di Hendrik Dey sulle Mura Aureliane hanno ben evidenziato come fra la tarda antichità e l’alto medioevo gli interventi sulle mura siano indissolubilmente legati al controllo politico e fiscale della città. Il discorso potrebbe certo estendersi ad altri periodi storici, ma sembra che la forte contrazione demografica manifestatasi tra V e VI secolo abbia determinato anche un accrescimento del prestigio simbolico e politico della cinta muraria.19 Non è un caso che, nella lunga serie di biografie papali del Liber Pontificalis, la memoria degli interventi pontifici sulle mura sia concentrata nei secoli VIII e IX, dal 708 all’855. È proprio nel corso di quel periodo, infatti, che i vescovi di Roma si sono affrancati dal potere politico bizantino e sono divenuti essi stessi un potere pubblico autonomo. Né è un caso, forse, che dalla metà del IX secolo agli inizi del XII le fonti pontificie non menzionino più interventi di tal fatta. Il papa ha continuato a mantenere il controllo e la supervisione delle mura e con ogni probabilità ha continuato anche ad agire su di esse, ma forse questo controllo era dato ormai per scontato da tutti i romani e non c’era più bisogno di enfatizzarlo in qualche modo.20 Alla luce di ciò si capisce bene allora perché alla metà del XII secolo il comune, per l’appunto una nuova istituzione in via di legittimazione, fa apporre un’epigrafe che ricorda un restauro delle mura. Intervenire sulle infrastrutture cittadine significa agire, in linea con il passato, come potere pubblico cittadino. Ma dato che la nuova istituzione non ha un passato proprio, essa ha necessità assoluta di documentare, specialmente attraverso la visibilità di un’iscrizione muraria (e a Roma non dovevano esser pochi quelli in grado di leggerla)21, la propria identità nell’intervento. Senza quell’epigrafe, chiunque avesse notato il lavoro edilizio lo avrebbe potuto ricondurre automaticamente al papa. Invece no, era il comune.
11Se usciamo da Roma, nel tardo XII secolo si assiste a un fenomeno piuttosto generale di appropriazione delle mura cittadine da parte delle nuove organizzazioni politiche laiche. Tale fenomeno – testimoniato anche da numerose epigrafi del tutto analoghe alla nostra, di norma apposte accanto o sopra le porte cittadine – è stato di recente rivalutato da Sara Menzinger in ragione del suo significato politico: nella maggior parte dei casi noti, le autorità comunali devono farsi garanti di un vero e proprio ampliamento della cinta muraria per rispondere al meglio a una generale e notevole crescita demografica. Per farlo hanno bisogno di progettazioni che tengano conto anche degli introiti e della distribuzione delle risorse ed è così che, proprio in concomitanza con la nuova edilizia muraria, nascono i primi estimi, espressione di una più ampia riorganizzazione fiscale delle città. Fra i protagonisti di questa riorganizzazione vi sono i nuovi gruppi di iudices, giuristi professionisti che, come Rolando da Lucca, sono in grado di ridefinire il senso pratico del corpus giuridico di Giustiniano facendo propri i numerosi riferimenti all’edilizia e alle forme di prelievo.22 Si possono individuare dinamiche del genere anche per Roma? Sì, almeno in parte. Intanto perché il comune romano ha fra i suoi registi un gruppo di giuristi intrisi di cultura giustinianea, ben evidenti anche nella nostra epigrafe: dei dieci nomi di senatori riportati almeno due, Filippo e Giovanni di Parenzo, compaiono nelle fonti coeve rispettivamente con le qualifiche di iudex e advocatus, e si ritrovano fra gli stessi giudici che hanno elaborato la sentenza sulla Colonna Traiana nel 1162 (cf. infra).23 Questi iudices, peraltro, sono gli epigoni degli antichi funzionari papali “scorporati” dal Laterano all’inizio del XII secolo, in concomitanza con la formazione del collegio dei cardinali.24 Avendo ancora il proprio perno di formazione nel Laterano, sono perfettamente consapevoli della progettualità pontificia, perciò sono anche in grado di assorbirla, comprenderla, emularla e se necessario riplasmarla. E poi perché, anche se per Roma non disponiamo di nessuna fonte fiscale ufficiale, i documenti giudiziari rivelano effettivamente una forma di prelievo destinata alle mura: a partire dal 1186 e ancora per tutta la prima metà del Duecento le sentenze senatorie prevedono costantemente, per chi contravviene alla decisione dei giudici, una certa quantità di denaro «per il rifacimento delle mura urbane» (pro refectione murorum Urbis). Non è chiaro se questa formula sia l’espressione superficiale di una riorganizzazione fiscale intorno alle mura, ma considerando che almeno nei primi decenni di vita del Senato si trovano menzioni di sentenze senatorie sbilanciate in favore di laici e contestate da parte di enti ecclesiastici, si potrebbe pensare che questo fosse una sorta di escamotage nato per imporre un pagamento di destinazione pubblica alle chiese che si opponevano al comune. Del resto, in quel medesimo 1186 il comune stava rilasciando privilegi che autorizzavano i milites dell’esercito comunale a prelevare denaro dalle offerte delle chiese come risarcimento delle perdite subìte in battaglia.25 Certamente non si tratta dell’unico introito destinato alla cinta. Il noto patto stretto tra il Senato e papa Clemente III nel 1188 prevede, da parte di quest’ultimo, un versamento annuale di ben cento libbre di provisini «per il restauro delle mura di questa città eccellentissima» (pro restauratione murorum huius excellentissime Urbis).26 Ecco, in questo senso, piuttosto che la fine del “libero comune”, il patto ci sembra segnare per esso una prima tappa di legittimazione formale – o di riconoscimento dall’alto, se consideriamo il papato una monarchia dalle ambizioni universali – di un lungo percorso di acquisizione del controllo delle mura e dell’organizzazione fiscale definita intorno a esse. Senza dover negare, chiaramente, che la partecipazione del papa a quella restauratio poteva significare, agli occhi dei contemporanei e delle stesse parti, il mantenimento o meglio il recupero di un certo peso politico all’interno delle città. Ma ora il papa non restaura più in prima persona, appunto, il papa fornisce denaro per la restaurazione.
... e un documento. Le colonne coclidi
12Il 27 marzo 1162 il Senato pose fine a una controversia sorta tra la chiesa di San Nicola alla Colonna Traiana (fig. 3) e il monastero di San Ciriaco in via Lata in merito al controllo della colonna stessa, come anche del titolo di San Nicola e di tutte le sue pertinenze. La contesa si risolse con l’emissione di una sentenza (investimentum)27 che dava ragione a San Ciriaco, assegnando al monastero il monumento e la chiesa di San Nicola, fatta eccezione per i diritti riservati alla basilica dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo e «salvo l’onore pubblico del Popolo di Roma» (vedi infra):
Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, amen. Noi senatori, eletti in Campidoglio dal venerabile e magnifico Popolo Romano per attribuire a ciascuno giustizia, dopo aver ascoltato la controversia tra il presbitero Angelo, economo della chiesa di San Nicola alla Colonna Traiana, e donna Maria, religiosa e onesta badessa del monastero di San Ciriaco, relativa alla chiesa di San Nicola posta ai piedi della medesima colonna, alla stessa colonna, alle case, agli orti e a tutte le pertinenze di questo [titolo]; e dopo aver analizzato i documenti e le prove presentati dalla badessa alla curia del Senato, ricevuto il parere legale degli esperti giudici e avvocati di seguito elencati […] restituiamo in perpetuo, con provvedimento di investitura da parte del Senato, la sopra menzionata chiesa [di San Nicola], la colonna, le case, gli orti e tutto quanto alla chiesa pertinente, alla badessa e in tal modo al monastero di San Ciriaco. [Affidiamo al monastero i beni elencati] fatta eccezione per il diritto parrocchiale della chiesa dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo e salvo l’onore pubblico della città, affinché nessuno, in seguito a tale provvedimento di restituzione, distrugga o danneggi la colonna, che al contrario dovrà rimanere integra e intatta finché il mondo dura e così anche la sua scultura, per l’onore della stessa chiesa e di tutto il Popolo Romano.28
Fig. 3. Basamento della Colonna Traiana, lato sud-est; foto degli autori.

13Se si considera l’ubicazione di San Nicola, si possono forse comprendere le rivendicazioni avanzate da questa pur piccola chiesa nei riguardi della Colonna Traiana: il titolo si collocava infatti proprio all’interno del piedistallo del monumento, come ricorda lo stesso testo del 1162 (ad pedes eiusdem columpnae posita) e come dimostrano le impronte, ancora evidenti, di una tettoia a doppia falda in corrispondenza dei lati sud-est e nord-ovest del piedistallo.29 Le pretese di San Nicola andavano tuttavia a scontrarsi con quelle di realtà ecclesiastiche ben più potenti, ovvero il monastero di San Ciriaco e la basilica dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo, e addirittura con gli interessi dello stesso comune (vedi infra); non stupisce dunque l’esito della controversia, che riduceva San Nicola e le sue pertinenze a meri immobili da spartire.
14Volgendo l’attenzione all’ultima parte del documento, sorprende invece la durezza delle sanzioni inflitte a coloro che avessero osato danneggiare la Colonna Traiana o che si fossero opposti al provvedimento senatorio:
Chi avrà tentato di danneggiarla (minuere) [la colonna] sarà condannato a morte e tutti i suoi beni verranno devoluti al fisco, mentre chi si sarà opposto a questo provvedimento di investitura del Senato incorrerà nella multa di quattro libbre d’oro30 da corrispondere alla curia del Senato […].31
15Tali misure potrebbero essere considerate esageratamente severe, se rapportate all’entità del reato; tuttavia, un loro confronto con alcuni passi del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano (la cui riscoperta in questo periodo a Roma è evidente) permette di coglierne il senso più profondo e di inquadrare il documento nell’ambito di una serie di manovre attente e silenziose, volte a rafforzare l’autorità comunale nei primi anni del suo governo. In primo luogo, l’atto specifica che la Colonna Traiana doveva essere restituita a San Ciriaco «fatto salvo l’onore pubblico della città» (salvo honore publico Urbis); aggiunge quindi che il monumento avrebbe dovuto essere mantenuto integro eternamente per «l’onore di tutto il Popolo Romano» (ad honorem totius populi Romani). Significativamente, i concetti di honor publicus e maiestas ricorrono nel libro quarantottesimo del Digesto32, che definisce la lesa maestà come il crimine «che si commette contro il Popolo romano o contro la pubblica sicurezza» e che si verifica anche quando uomini armati si appropriano di luoghi o di templi.33 Lo stesso libro ricorda che la legge delle dodici tavole prescrive la pena capitale per chi si macchia di questo delitto, mentre la più recente Lex Iulia prevede che il reo di lesa maestà sia sottoposto a processo, per essere condannato all’esilio, alla tortura oppure alla morte a seconda della gravità dell’atto commesso.34
16I dati appena evidenziati permettono di formulare importanti considerazioni riguardo alle strategie di autolegittimazione promosse dal Senato nel corso della prima età comunale. In primo luogo, gli autori del documento – o meglio i giudici che hanno ideato la sentenza35 – conoscevano il quarantottesimo libro del Digesto e, con ogni probabilità, utilizzarono consapevolmente l’autorevole testo per la stesura del loro documento. In secondo luogo, il comune concesse la Colonna Traiana al monastero di San Ciriaco solo apparentemente; di fatto, fu il Senato ad assumerne il vero controllo riformulando, con l’ausilio di Giustiniano, il concetto stesso di maestà: con la sentenza del 1162, il termine veniva ad assumere un significato nuovo, andando a indicare non soltanto il Popolo di Roma, rappresentato dal Senato, ma anche i monumenti più significativi per la storia della città. Elevando la Colonna Traiana a simbolo della sua autorità, il Senato poté dunque considerare l’eventuale danneggiamento del monumento un reato lesivo della propria maestà, punibile in quanto tale con la morte.
17Si può supporre che il comune tenesse ad appropriarsi della Colonna Traiana anche in virtù del ricco nastro figurativo che ne avvolgeva il fusto, esplicitamente menzionato nel documento con il termine di figura36; in un mondo abituato a istruire tramite l’uso di immagini, un simile monumento, ancora perfettamente conservato e ricco di dettagli realistici, rispondeva pienamente alle esigenze di una classe politica in cerca di legittimazione, desiderosa di affermarsi come unica erede di quell’antico Senato che aveva reso Roma caput mundi. Poco importava che non si conoscessero gli eventi raccontati sulla Colonna (ovvero le Guerre Daciche condotte da Traiano al di là del Danubio e delle Alpi Transilvane nel corso del primo decennio del II sec. d.C.); contemplandone i pannelli anche solo da lontano, i suoi fruitori potevano sentirsi parte di una comunità dal passato leggendario e indirettamente cogliere la potenza del nuovo Senato, erede e difensore di una Roma che aveva saputo vincere su tutti i popoli. Il caso emblematico della Colonna Traiana permette dunque di sostenere che il comune attribuì al patrimonio di Roma un senso di sacralità che andava ben oltre il suo valore artistico, fungendo da legante per la comunità e da strumento di legittimazione per il Senato. Non è un caso che si faccia riferimento all’honor: in altre città italiane è proprio l’honor civitatis a esprimere «l’autentico collante della prima società comunale»37.
18È interessante notare la presenza di alcune similitudini tra i provvedimenti presi per questo monumento e quelli adottati alcuni decenni prima per la conservazione della Colonna Aureliana, posta nei pressi della via Lata e dedicata alla commemorazione delle guerre condotte da Marco Aurelio sulla frontiera danubiana tra il 168 e il 174 d.C. Il monastero di San Silvestro in Capite aveva ottenuto il controllo sulla colonna da Papa Agapito II il 25 marzo del 955, o forse in tempi addirittura precedenti38, ma fu poi costretto a cederla in locazione. Riuscì a recuperarla solo nel 1119 e volle ricordare l’evento con un’epigrafe attualmente murata nel cortile del monastero stesso (fig. 4). L’iscrizione sanciva solennemente che non si sarebbe mai più verificata alcuna cessione della colonna e che chiunque avesse osato contravvenire al provvedimento sarebbe stato còlto da anatema.39 Il dato è interessante perché suggerisce che, ben prima dell’instaurazione del comune, chiese e monasteri guardavano con interesse al patrimonio monumentale cittadino, rivendicandone il possesso, insistendo sull’importanza della sua conservazione e aprendo la strada a un importante percorso di mantenimento e valorizzazione del patrimonio di Roma. Un recentissimo studio condotto da Marco Vendittelli ha ampiamente dimostrato che le misure di tutela prese per la Colonna Aureliana non ebbero vita lunga: quest’ultima confluì infatti tra i possessi dei Malabranca già agli inizi del Duecento.40 A questo proposito, è importante sottolineare che due componenti di questa famiglia, Gregorio e Angelo, svolsero la carica di senatore rispettivamente nel 1188 e nel 1235. Se ne potrebbe dedurre che i Malabranca appartenevano all’élite senatoria della città nel momento in cui acquisirono la Colonna Aureliana e che dunque, nei primi anni del XIII secolo, il comune arrivò di fatto a controllare entrambe le colonne coclidi della città.
Fig. 4. Epigrafe presso il cortile del monastero di San Silvestro in Capite (1119); foto degli autori.

L’urbanistica politica del Senato
19Fin qui abbiamo ricostruito due rapporti specifici: quello del comune con le mura e quello del comune con le colonne coclidi. Con la dovuta profondità di analisi alle spalle, possiamo ora spostarci su un piano più generale, articolando la riflessione intorno a tre punti: le strategie seguite dal Senato per la conservazione e tutela del patrimonio urbanistico e monumentale della città (1), le dinamiche che portarono il Senato e il papato a trovare un loro equilibrio nel corso della (lunga) fase di assestamento del comune (2) e, infine, il valore politico delle operazioni di “restauro” promosse dal Senato (3).
201. Relativamente al primo punto, ci siamo resi conto che le operazioni promosse dal comune per la preservazione delle mura e delle colonne rivelano un medesimo modus operandi: si parte da un problema da risolvere, in un caso il buon mantenimento delle mura, nell’altro una controversia tra due chiese; in entrambi i casi, il problema viene preso in carico dal comune, che sfrutta le situazioni in cui si ritrova a intervenire per rafforzare il proprio prestigio e dunque affermarsi politicamente. I senatori, o perlomeno alcuni di loro (ad esempio i giuristi), sanno che gli interventi sulle mura e per la protezione delle colonne sono stati fino a quel momento prerogativa dell’autorità ecclesiastica. Conseguentemente, assumendosene la responsabilità, costoro si pongono di fatto come i sostituti del potere tradizionale, fornendo una dimostrazione pubblica e inequivocabile del passaggio: nel caso delle mura, apponendo un’epigrafe; nel caso delle colonne, legando al Popolo di Roma il concetto di maiestas (fino a quel momento associato alla figura dell’imperatore) ed elevando tali monumenti a simbolo dell’honor cittadino, simbolo cioè di quel «rango» cui le nuove collettività urbane aspirano all’interno di spazi politici più ampi, come è il caso dell’Italia centro-settentrionale.41 Riteniamo che i casi analizzati in questa sede possano essere utilizzati per comprendere meglio e più in generale le politiche urbanistiche e monumentali adottate dal comune nel XII secolo. Le fonti considerate convergono nel documentare operazioni molto distanti da quelle cui oggi siamo abituati e che sono contraddistinte da progetti a lunga durata, teorizzati dall’alto e pianificati nel minimo dettaglio. Più che di politica urbanistica, per il Senato si potrebbe parlare di urbanistica politica, poiché il fine ultimo del comune, almeno in questo primo periodo di sperimentazioni, è ottenere legittimazione attraverso lo sfruttamento di problemi urbanistici esistenti. Non si tratta beninteso di una peculiarità romana: anche in molte altre città italiane una vera e propria progettazione urbanistica a largo raggio non si manifesterà prima della tarda età podestarile e in quella dei comuni di popolo.42 Significativamente, i primi interventi attuati dal comune coinvolgono colonne, ponti e tratti di mura con relative porte, tutti luoghi sottoposti al controllo papale ed ecclesiastico nell’alto medioevo. Estendendo la propria autorità su di essi, il Senato non fa che dichiararsi come nuovo potere pubblico e, parallelamente, come nuovo destinatario degli introiti derivanti dal loro controllo (si pensi in particolare ai ponti e alle porte).43
212. Per comprendere tale urbanistica politica, è forse il caso di esplicitare la sua possibile relazione con la parallela storia del papato e ciò ci porta a riflettere sulla seconda tematica. Tra gli anni Quaranta e Ottanta del XII secolo i papi abbandonano Roma più volte, per ritornarvi in pianta stabile solo dopo la stipulazione del patto di concordia44 nel 1188. Parallelamente, il processo di costruzione monarchica di cui sono protagonisti e le loro aspirazioni universali fanno sì che i pontefici rivolgano i propri interessi istituzionali ben al di là delle Mura Aureliane. Le loro prolungate assenze dal territorio romano favoriscono una maggiore libertà d’azione per il Senato in tutti i settori tradizionali di governo, quali la fiscalità e la giustizia, la difesa e il controllo delle infrastrutture. I papi sono naturalmente consapevoli del prestigio politico e dei vantaggi economici derivanti dalla gestione di questi settori e per questo tentano ripetutamente di giungere a patti con il Senato. Il patto del 1188 è forse quello che più chiaramente illustra tale convergenza, o tale conflitto se vogliamo, di interessi. I suoi articoli andrebbero interpretati, con ogni probabilità, come il risultato di lunghe negoziazioni tra due autorità che, pur mosse da interessi diversi (cittadini e in buona parte laici relativamente al Senato; sovralocali e principalmente ecclesiastici relativamente al pontefice), sono del tutto consapevoli della portata economica e politica di tali provvedimenti. In questo senso, il patto di concordia può essere considerato come un primo punto di arrivo nella costruzione politica del comune all’interno dello spazio urbano: se da un lato il papa può tornare ad esercitare alcune prerogative, dall’altro il Senato stesso è riconosciuto, quasi investito, da un potere sovralocale, il papato, negli ambiti di competenza che faticosamente sta conquistando in questi decenni. Il patto di concordia non offre forse argomenti sufficienti per sostenere l’esistenza di una “disparità di potere contrattuale” tra le parti coinvolte a vantaggio del comune. Tuttavia, si deve considerare che l’accordo non si presenta come una concessione papale al Senato, quanto piuttosto come un privilegio senatorio indirizzato al papa; la natura stessa del documento sembra dunque indicare una direzione degli accordi da parte del comune, tanto più se osserviamo il suo contesto di trasmissione, il Liber censuum del cardinale camerario Cencio, futuro papa Onorio III. Il patto si trova, all’interno del Liber, in una sezione specifica sui diritti pubblici del papa, le «regalìe» (regalia). I tre documenti del XII secolo ospitati nella sezione riguardano concordiae tra Eugenio III e Federico I (1152), Adriano IV e Guglielmo di Sicilia (1156) e infine, appunto, Clemente III e il Senato (1188). Il documento di Federico I, provvisto della salutatio imperiale e di un preambolo, ha al suo interno un testo per così dire neutro, che narra in terza persona e con i verbi al futuro in primo luogo gli impegni del re germanico e poi quelli del papa. Nel documento di Guglielmo il re parla sì in prima persona, ma fa anche esplicita menzione della stesura di due atti (capitularia) gemelli da conservare rispettivamente negli archivi di ciascuna parte. Il testo del 1188 in questo senso è diverso: non solo sono sempre i senatori a parlare, ma essi stessi definiscono il patto di concordia con il termine decretus amplissimi ordinis sacri senatus, stabilito sulla base di un’assemblea comunale cui avevano partecipato diversi “uomini sapienti”, fra i quali senz’altro giuristi. Probabilmente, da quell’incontro era emersa una lista di articoli da far approvare al papa e ai suoi cardinali, i quali poi avrebbero negoziato buona parte dei punti, se non tutti. Chiaramente neppure i senatori possono sottrarsi al riconoscimento del papato come potere pubblico superiore, né dunque possono rifiutarsi di giurargli fedeltà. Il punto però è che se osserviamo queste forme di giuramento con una prospettiva più ampia, ci rendiamo conto che da ogni parte d’Europa i giuramenti strutturano i rapporti politici e non significano necessariamente perdita totale di autonomia: anche il re normanno giura fedeltà al papa, promettendogli persino l’omaggio ligio (ligium hominium). Il Senato si guarda bene dall’arrivare a tanto.45
223. Infine, i restauri. Interventi urbanistici su mura, porte, ponti e infrastrutture sono frequenti nell’Italia del XII e del XIII secolo, e vi sono casi, come quelli di Pisa, Viterbo, Genova, Milano, Assisi e Reggio Emilia, dove la loro memoria è affidata a epigrafi del tutto analoghe a quelle senatorie analizzate in questa sede.46 Ma salvo nostro errore nessuna iscrizione parla di “restauri” quando invece, lo abbiamo visto, a Roma l’insistenza su questo concetto è martellante lungo l’intero medioevo e oltre. Sarà un caso che entrambe le iscrizioni comunali che ci è riuscito di reperire nel XII secolo parlano all’unisono di “restauri”? Come interpretare questa particolarità? Si può ovviamente pensare alla discrasia tra una popolazione medievale modesta rispetto all’antichità e l’imponenza delle mura e del loro spazio abitato. Inutile costruire, se le infrastrutture vanno ben al di là dei bisogni concreti di questi pochi abitanti. Ma poiché a quanto pare un’attitudine al “restauro” è presente anche prima della contrazione demografica tardoantica, probabilmente la sua ragion d’essere va ricercata in quella particolare mentalità evidenziata anni or sono da Yan Thomas a proposito degli “ornamenti” (ornatus) dell’Urbe nell’antichità. Fino al VII secolo colonne, capitelli, sculture, iscrizioni e più in generale tutto ciò che è di marmo – e ricordiamo che scaglie e frammenti di marmo sono onnipresenti anche nelle mura47 – costituiscono un insieme giuridico coeso, che è patrimonio cittadino e allo stesso tempo proiezione sul territorio urbano di un’unità istituzionale, di un potere politico. Per questa loro ragion d’essere la legge non ammette nessuna separazione dei marmi dalla città, così come non ammette che essi vengano sottratti a un edificio antico per costruire od ornare un edificio nuovo. Restaurare viene sempre prima di costruire in vista del fatto che l’ornatus può soltanto crescere. In questa concezione, il restauro e la risemantizzazione di spazi esistenti prevalgono nettamente sulle costruzioni ex novo. Thomas concludeva il suo lavoro affermando come la coesione dell’ornatus di Roma fosse venuta meno proprio nei secoli VIII e IX, eppure a noi sembra di riscontrare una notevole continuità in tal senso. Non vogliamo negare le novità edilizie, ma solo far notare come nel periodo indagato i poteri pubblici siano perfettamente coscienti di una unità monumentale cittadina e del suo legame con il potere, probabilmente in ragione del fatto che a Roma il diritto giustinianeo non venne mai meno, e soprattutto fra XI e XII secolo venne riscoperto nella sua versione integrale.48 Le testimonianze scritte prodotte a Roma fanno tutte riferimento a un’unità monumentale chiamata decus o decor Urbis, che è indissolubilmente legata all’esercizio del potere perché sua espressione diretta. Ne parlavano le iscrizioni papali dell’età di Leone IV (847-855) e ne parlano quelle apposte sulla casa dei Crescenzi – che crediamo potersi ben datare agli anni ’60 del XII secolo – legando ora il concetto, esattamente come accade in un discorso dei Romani a Federico I nel 1155 e nella sentenza senatoria del 1162, all’honor publicus di Roma; addirittura, una rubrica degli Statuti comunali del Trecento, con ogni probabilità desunta da disposizioni più antiche di quella data e da modelli giustinianei, afferma esplicitamente che «gli antichi edifici rappresentano in pubblico (publice) il decus Urbis».49 E così, quando li rapportiamo a questa concezione e agli antichi miracula Urbis descritti da Plinio il Vecchio, i Mirabilia Urbis medievali non ci appaiono più come guide per i pellegrini, bensì come censimenti ufficiali di questo decus, di questo patrimonio monumentale pubblico indissolubilmente legato all’esercizio di governo.50 Ora, se in linea con il passato intervenire sul decus Urbis significa esercitare un potere politico sulla città, si capisce bene allora perché le istituzioni da noi considerate abbiano preferito insistere sul patrimonio monumentale e urbanistico antico piuttosto che, come nelle altre città, mostrarne uno “nuovo”. Si capisce anche meglio, allora, l’uso di concetti di antica data come quello della vetustas, il “passato che rovina” e che deve essere ostacolato da operazioni di rinnovo e di restauro.51 Intendiamoci, non stiamo affermando che il concetto di decus cittadino come entità giuridica e politica sia assente dalle altre città medievali: riferimenti a esso si trovano ad esempio anche nelle iscrizioni di Viterbo e in quelle di Pisa del XII secolo. Ma rispetto a tutte le altre città italiane, a Roma la quantità di marmi, infrastrutture e monumenti antichi è talmente elevata da rendere quasi impensabile una qualsiasi operazione edilizia che non operasse materiali di reimpiego e non fosse considerata un atto di restauro. Forse è per questo che a Roma non si parla di “comune”, bensì di “Senato restaurato”.
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Valci 2018 = M. Valci, The Economy of Rome in The Communal Period (1143-1398). A Numismatic Perspective, Tesi di dottorato, Università di Nottingham, 2018.
Vendittelli 2016 = M. Vendittelli, «Usque ad Urbem cum comitissa Mathilda pacifice venimus». La situazione politico-sociale di Roma al tempo di Matilde, in Matilde di Canossa e il suo tempo. Atti del XXI Congresso internazionale di studio sull’alto medioevo in occasione del IX centenario della morte (1115-2015) San Benedetto Po-Revere-Mantova-Quattro Castella, 20-24 ottobre 2015, 2 vol., Spoleto, 2016, p. 391-426.
Vendittelli 2019 = M. Vendittelli, Il casato romano dei Malabranca a cavallo tra XII e XIII secolo. Nuove acquisizioni, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 121, 2019, p. 107-138.
Vendittelli 2021 = M. Vendittelli, Roma al tempo di Dante. Una storia municipale (1265-1321), Roma, 2021.
Wickham 2013 = C. Wickham, Roma medievale. Crisi e stabilità di una città (950-1150), Roma, 2013.
Notes de bas de page
1Ci si riferisce al noto patto tra il comune di Roma e papa Clemente III, contenuto nel Liber Censuum pontificio e pubblicato in Senato, no 42: Barone 2003 e Carocci 2008. Lo studio più esaustivo sulla politica monumentale del Senato è Baumgärtner 2004, cui oggi bisogna aggiungere Dey 2020 e 2023, Motta 2023, Mercuri – Molinari 2023, incentrati sulle mura. Fra gli studi recenti sul rapporto tra politica e urbanistica in Italia sono da segnalare Menant 2011, p. 147-179; Rao 2015, p. 175-198; Menzinger 2017; Calzona – Cantarella 2019; Bolle – von der Höh – Jaspert 2019 nonché il progetto Petrifying Wealth, finanziato dallo European Research Council e diretto da Ana Rodríguez e Sandro Carocci: https://www.petrifyingwealth.eu/ (cons. 9 mar. 2023).
2Il riferimento è ovviamente a Maire Vigueur 2011 e Wickham 2013. Per i dibattiti sulla Roma comunale si veda Carocci 2014. Ma da circa due anni sembra essersi aperta una nuova stagione di ricerche su Roma medievale: cf. Vendittelli 2021; Dey 2021; Delogu 2022.
3Riferimenti imprescindibili sono Pietrangeli 1960 e Romano 1994, ai quali oggi si possono aggiungere diversi altri studi che hanno beneficiato di nuovi dati documentari, archeologici e visuali: Albertoni – Dell’Era 2011; Romano 2012, p. 242-244, 312-315; Tucci 2014; Andaloro – Romano 2017, p. 295-297; Bolgia 2017.
4Bolle 2019, p. 230, 234-235.
5Senato, n. 18; Gilberti Chronicon, p. 123.
6Senato. I dati sono censiti da Dario Internullo.
7Mancini 2001; Giannini 2016 e 2019; Dey 2021. Per le indagini specifiche sulle mura vedi infra.
8In particolare si vedano Maire Vigueur 2011, p. 259-261; Wickham 2013, cap. 7; Vendittelli 2016.
9Rimandando ad altra sede il pieno sviluppo di queste affermazioni (e cf. già Internullo 2022, cap. 3 e p. 160-187), ci limitiamo qui a esplicitare due punti che ci paiono essenziali: 1) le aggregazioni politiche laiche che emergono tra il 1080 e il 1120, cioè nel periodo più intenso della crisi politica di Roma, fanno più volte perno sulla prefettura urbana; 2) il Campidoglio ha legami forti tanto con le strutture giudiziarie prefettizie anteriori al 1143 quanto con quelle aggregazioni politiche laiche che emergono tra 1080 e 1120. Si può ragionare a partire dalle seguenti fonti: Regesto di Farfa, n. 1097 e 1115; Liber Pontificalis, II, p. 299, 313; Petersohn 1994; De Prosperis 2011, p. 242-246; Mirabilia, p. 156-160; S. Maria in via Lata, n. 171; Senato, n. 20; Statuti I 4, p. 5. Sul problema della presenza o meno di una prigione (ancora non pienamente risolto) Bolgia 2017, p. 22-35. Sulla Roma di questo periodo riferimenti sono Wickham 2013, p. 441-467, 480-496 e Vendittelli 2016. Per la monetazione, Valci 2018.
10R(egio) S(ancti) A(n)g(e)l(i). † Anno .MCLVII. incarn(a)t(ionis) d(omi)ni n(ost)ri Ih(es)u Chr(ist)i S(enatus) P(opulus)que R(omanus) hec menia vetustate dilapsa restauravit. Senatores: Sasso, Ioh(anne)s de Alberico, Roieri Buccacane, Pinzo, Filippo, Ioh(anne)s de Parenzo, Petrus D(eu)stesalvi, Cencio de Ansoino, Rainaldo Romano, Nicola Mannetto. Si veda Bolle 2019, p. 230.
11Ci siamo chiesti, seguendo Dey 2020, p. 160, se l’epigrafe non sia copia di un originale conservato ai Musei Capitolini. Alessandra Avagliano, archeologa in funzione presso i Musei Capitolini, ci conferma che presso i Musei non è conservata alcuna epigrafe del genere: non abbiamo motivo al momento di dubitare che ciò che vediamo a Porta Metronia sia l’epigrafe originale, fermi restando i problemi della collocazione originaria (cf. infra). C’è da aggiungere però che il colore nero nel solco delle lettere sembra essere una aggiunta piuttosto recente, dato che nelle fotografie più risalenti non è presente.
12Bolle 2019, p. 234-235: Benedictus alme Urbis summ(us) senator restauravit hunc pontem fere dirutum.
13Cf. Motta 2023, p. 77; Bernacchio 2023, p. 255-257.
14Bultrini 2013; Giannini 2016; Statuti II 188-189, p. 186-187; Liber decretorum, p. 185. L’epigrafe del 1579 recita che Caesar Iuvenalis Latini F. Mannettus co(n)s(ul) III turrim hanc olim collapsam et a Nicolao Mannetto VII viro senatore collegiusque eius, quorum familiae extinctae sunt, instauratam, rursus post annos CDXXI iterum collabentem, ut publicum Mannettae familiae in patriam perpetuae voluntatis extet monumentum, privata impensa restituit. Escludiamo che l’epigrafe del 1157 sia un falso: in un periodo di «genealogie incredibili» che guardavano a Roma antica, una famiglia di livello medio-alto avrebbe difficilmente guardato al passato comunale del XII secolo. Si potrebbe comunque pensare che l’epigrafe più antica sia stata trascinata in quel luogo per volontà del committente cinquecentesco, ma non accantoneremmo del tutto un’altra ipotesi: che la nostra epigrafe fosse realmente ab origine sopra Porta Metronia, e che con i restauri del periodo moderno fosse semplicemente stata staccata e reinserita nelle mura contemporaneamente all’epigrafe cinquecentesca. Lasciamo al futuro una discussione su questo aspetto, notando come anche Dey 2023, p. 28, sia dell’avviso di una collocazione in loco ab origine, dunque di una strategia senatoria volta anche a prendere il controllo dei rifornimenti idrici che venivano dal canale della Marana, i cui lavori erano stati avviati dai papi dei primi decenni del XII secolo.
15Per quanto riguarda la vetustas, il “passato negativo” che rovina i monumenti ed è contrapposto al “passato positivo” dell’antiquitas, si tratta di un concetto diffuso già in epoca antica e tardoantica e veicolato da iscrizioni, testi legislativi e documenti. Il comune romano lo ha senz’altro preso a modello attraverso uno di questi canali. Su di esso si vedano le considerazioni di La Rocca 2010, p. 6-8 (a partire dalle Variae di Cassiodoro), oltre che i contributi di questo volume incentrati sul periodo antico e tardoantico.
16La distribuzione degli interventi di XII-XIII secolo risulta concentrata nel tratto meridionale che da Porta Appia arriva fino alla riva del Tevere, ma vi sono riscontri anche su alcune torri del tratto settentrionale e da una torre tra Porta Maggiore e Porta Asinara: Mercuri – Molinari 2023, p. 65-71; Motta 2023; per i «pezzi “speciali” di reimpiego» inseriti nelle mura cf. Esposito – Mancini 2023.
17Maire Vigueur 2011, p. 127-140; Wickham 2013, p. 346-348, 354-355, 502, 509-512; Carpegna Falconieri 2014.
18Bolle 2019, p. 233; Motta 2023, p. 88.
19Si veda il contributo di Maxime Emion in questo volume.
20Dey 2011, 2020 e 2023, nonché il saggio di Riccardo Santangeli Valenzani e Andrea Verardi in questo volume. Nell’interpretare questo silenzio ci discostiamo in un punto da Dey, secondo il quale tale silenzio tradirebbe un reale disinteresse (o un’incapacità) papale nei confronti delle mura in un periodo critico come quello dell’Adelpapsttum. Ci sentiamo invece più vicini alla linea interpretativa di Riccardo Santangeli Valenzani, che appunto preferisce parlare di problemi di fonti: Santangeli Valenzani 2023, p. 18. In effetti, la prima stagione redazionale del Liber Pontificalis si chiude negli anni Ottanta del IX secolo per riaprirsi soltanto, certo con sguardo anche retrospettivo, nel XII. Non affrontiamo il Duecento e il Trecento, anch’essi ben illustrati in Dey 2020, 2023 e discussi anche in Mercuri – Molinari 2023. Anche in questo caso riteniamo che un’assenza di riferimenti espliciti alle mura dopo il 1250 ca. non debba essere necessariamente interpretata come spia di un indebolimento istituzionale dovuto all’ascesa del baronato; piuttosto, tutto avviene come se non si senta la necessità di stimolare una propaganda politica intorno alla cinta perché ormai è dato per scontato che il controllo delle mura sia di pertinenza comunale. Ma poiché l’edizione dei documenti senatorii fatta da Bartoloni si arresta alla metà del XIII secolo, bisogna ammettere che una ricerca sistematica è ancora tutta da compiere. A puro titolo esemplificativo, facciamo notare che un documento senatorio del 1267, conservato presso gli archivi di Vitorchiano (VT), ancora fa riferimento alla refectio murorum: De Montis 2017, n. 10 dell’appendice documentaria. Naturalmente, quando parliamo di “propaganda intorno alla cinta” non ci riferiamo solo alle parole delle fonti scritte, ma al restauro stesso, che in alcuni momenti poteva avere più un valore politico che urbanistico-pragmatico.
21Le ricerche di Armando Petrucci e Carlo Romeo (1992, p. 127-142), basate sulle firme autografe dei testimoni delle carte notarili, hanno rivelato una notevole diffusione dell’alfabetismo in seno a diversi gruppi della società romana del X e dell’XI secolo, non solo ecclesiastici ma anche laici. Nel nostro periodo, purtroppo, le firme dei documenti d’archivio non sono più autografe – sono i notai ora a tracciarle –; tuttavia i processi di crescita e articolazione culturale, evidenti soprattutto dall’incremento di documentazione conservata negli archivi e dalla riscoperta del diritto giustinianeo integro, lasciano pensare che nel XII secolo l’alfabetismo si fosse sviluppato ulteriormente. Vedi su ciò anche Internullo 2019, p. 523-525.
22Menzinger 2017, p. 65-109. Per le epigrafi vedi Guerrini 2013, p. 10-12, 21-27 e Bottazzi 2016.
23Per Filippo vedi almeno Regesto di Subiaco, n. 169; S. Sisto, n. 3-4; Liber censuum, n. 91. Per Giovanni di Parenzo Wickham 2013, p. 319. Anche Petrus Deustesalvi sottoscrive S. Maria in via Lata, n. 162 (1138) insieme a giuristi, causidici e notai e forse è parente di Deusteguardi attestato come treguarius – mansione giudiziaria – in S. Gregorio, n. 7 (ca. 1140) insieme a giudici e avvocati.
24Toubert 1973, p. 1191-1257; Baumgärtner 1989; Carpegna Falconieri 2002, p. 256-257 e passim.
25Senato, n. 40, 55, 68, 70 e altri ancora, con Dey 2020, p. 162-164; Documenti guerreschi, n. 1. La situazione con le chiese viene poi riequilibrata con gli accordi del 1188: Senato, n. 41-42. Prima di quella data, fra il 1151 e il 1174, il comune aveva già organizzato forme di prelievo intorno alle merci che facevano ingresso nelle porte urbane, subentrando così a più antiche prerogative pubbliche del papato e delle chiese: Senato, n. 11 e 29 con Dey 2020, p. 159 e 169. Che fra IX e X secolo le porte e i dazi a esse connessi fossero gestiti dal papato e da enti ecclesiastici (tramite concessioni papali) è evidente ad esempio da S. Silvestro, n. 2 (844). Prelievi coatti agli altari da parte di senatori sono ancora testimoniati nel primo Trecento: ai margini di un suo manoscritto, un canonico di Santa Maria Rotonda (Pantheon) si lamenta delle azioni predatorie di un senatore: BAV, Vat. Lat. 1927, fol. 3r con Internullo 2016, p. 270-271. Altre forme di prelievo (exactio) imposte dal Senato ad Albano e Tuscolo sono attestate già nel 1167 in Liber Pontificalis, II, p. 415-416.
26Senato, n. 42. Faccio notare che l’espressione huius excellentissime Urbis, trova già un’eco in un contratto d’affitto di vigne fuori Porta Metronia, datato 1127: S. Maria Nova, n. 43 (la vigna si trova iusta muros huius alme Urbis). L’espressione è di matrice tardoantica, ma mi chiedo se questo suo risveglio intorno al 1127 non nasconda già la promozione di alcuni interventi sulle mura. In Regesto di Subiaco, n. 80 (968) si parla semplicemente di muro istius civitatis.
27Senato, n. 18. Per un inquadramento sulla sentenza, vedi Peppe 2007, p. 121-133.
28† In nomine domini nostri Iesu Christi, amen. Nos senatores pro iustitia cuiq[ue t]ribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio constituti, audi[ta] controversia que inter presbiterum Angelum yconomum ecclesiae Sancti Nicolai columnae Traianae et domnam Mar[iam] religiosam atque hon[e]s[tam] a[bb]atissam monasterii Sancti Cyriaci erat, de ecclesia scilicet Sancti Nicolai ad pedes eiusdem columpnae posita et de ipsa columpna et domibus, ortis et omnibus ei pertinentibus; visis etiam instrumentis et allegationibus ab Ead. abbatissa in curiam Senatus missis et allatis; super omnibus cum sapientibus subscriptis iudicibus et advocatis consilio communicato, […] supra di[c]tam ecclesiam cum columpna, domibus, ortis et omnibus ei pertinentibus eidem abbatissae, investimento et auctoritate senatus ei et per eam monasterio Sancti Cyriaci in perpetuum restituimus. Salvo iure parrochiali ecclesiae Sanctorum apostolorum Philippi et Iacobi et salvo honore publico Urbis eidem columpnae n[e] unquam per aliquam personam obtentu investimenti huius restitutionis diruatur aut minuatur, sed ut est ad honorem ipsius ecclesiae et totius populi Romani, integra et incorrupta permaneat dum mundus durat, sic eius stant[e] figura.
29L’edificio è definito come “San Nicola alla Colonna Adriana” nel Catalogo di Cencio Camerario (1192) e nel Catalogo Parigino (ca. 1230) (Cenc. 214. sco. Nicolao columpne Adriani VI den.; Paris. 174. S. Nicolaus de Columpna Adriani), come “San Nicola alla Colonna” nel Catalogo di Torino (ca. 1320) (Taur. 4. Ecclesia sancti Nicolai de Columpna habet sacerdotem et clericum) e come “San Nicola alla Colonna Traiana” nel Catalogo del Signorili (ca. 1425) (Sign. 164. Sci. Nicolai ad columnam Traiani). Si veda Huelsen 1927, p. 395.
30cf. Senato, n. 17.
31Qui vero eam minuere temptaverit, persona eius ultimu patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur. Et qui contra hoc investimentum senatus violenter venerit, preter penam legis incidat in penam IIII. librarum auri curiae senatus componendam […].
32D. 48.4. Ad legem Iuliam maiestatis.
33D. 48.4.1: Maiestatis autem crimen illud est, quod adversus populum Romanum vel adversus securitatem eius committitur […] quo armati homines cum telis lapidibusve in urbe sint conveniantve adversus rem publicam, locave occupentur vel templa […].
34D. 48.4.3: Lex duodecim tabularum iubet eum, qui hostem concitaverit quive civem hosti tradiderit, capite puniri. Lex autem Iulia maiestatis praecipit eum, qui maiestatem publicam laeserit, teneri: qualis est ille, qui in bellis cesserit aut arcem tenuerit aut castra concesserit. Ead. lege tenetur et qui iniussu principis bellum gesserit dilectumve habuerit exercitum comparaverit: quive, cum ei in provincia successum esset, exercitum successori non tradidit: quive imperium exercitumve populi Romani deseruerit: quive privatus pro potestate magistratuve quid sciens dolo malo gesserit: quive quid eorum, quae supra scripta sunt, facere curaverit.
35Riportiamo qui di seguito i loro nomi, così come sono specificati nel documento: anzitutto gli iudices Petrus primicerius iudicum, Gregorius secundicerius, Robertus primus defensor, Mardo protoscrinius, Philippus sacellarius, Paulus bibliothecarius e Gregorius primicerii arcarius, chiaramente epigoni degli antichi iudices papali (vedi sopra); dunque gli iudices dativi Petrus de Rubeo, Landulfus, Bonussenior, Paulus, Iohannes, Gregorius e Tedaldus; infine gli advocati Bartolomeus, Petrus Mactaguerra, Iohannes Parentii, Petrus de Advocato e Iohannes Gonçolini. Il sacellario Filippo e l’avvocato Giovanni Parenzi sono i medesimi che compaiono nell’epigrafe del 1157.
36Per un inquadramento sul programma figurativo della Colonna Traiana, si veda Settis 1985.
37Faini 2015, p. 129.
38S. Silvestro, n. 3 (955), in particolare alle p. 273-274. Poiché S. Silvestro, n. 2 (844), che parla di concessioni da parte del papa di una porta (S. Valentino) e di un ponte (Milvio) cum omni datione, è tramandato dalla copia di XII secolo di un documento papiraceo particolarmente rovinato, è plausibile che la colonna venisse menzionata già nell’originale di quel documento.
39Si quis ex hominibus columpnam per violentiam a nostro monasterio subtraxerit perpetue maledictioni sicuti sacrilegus et raptor et sanctarum rerum invasor subiaceat et anathematis vinculo perpetuo teneatur fiat («Se qualcuno dovesse sottrarre la colonna al monastero con la violenza, che venga per sempre maledetto come empio ladro e usurpatore delle cose sacre e sia eternamente soggetto ad anatema»). Si veda Adinolfi 1980, p. 351 e Del Lungo 1996.
40Nel suo Chronicon pontificum et imperatorum Romanorum (ca.1221, Gilberti Chronicon, p. 123), Gilberto specifica che i Malabranca, a quel tempo, detenevano la così detta Colonna “Antonina” insieme a un non meglio identificato casato dei Carolones (Vendittelli 2019, p. 120-121). È senz’altro plausibile l’ipotesi di Vendittelli che dietro i Carolones si celi in realtà una confusione del cronista in merito alla zona chiamata campus Caroleonis/Kaloleonis (p. 120); va però rilevato che nella documentazione romana emerge almeno un individuo chiamato Carusleo nel tardo XII secolo (ad esempio in S. Maria Nova, n. 47, a. 1139; 51, a. 1140).
41Faini 2015 p. 128-131, con ulteriori riferimenti storiografici.
42Su questo punto si veda almeno Menant 2011, p. 157-167.
43Dey 2020, p. 159, 168-169; Lenzi 1999, p. 817-820, 837-838, 842-857.
44È questa (concordia) la definizione cui il camerario Cencio ricorre nella sua trascrizione ufficiale del Patto, contenuta nel Liber Censuum (Concordia inter dominum papam Clementem .III. et senatores populumque Romanum super regalibus et aliis dignitatibus Urbis). BAV, Vat. Lat. 8486, fol. 104r-104v.
45Liber Censuum, n. 84-86, ma si vedano anche i n. 77-83, dove sono riportati i pacta degli imperatori germanici a partire da Ludovico il Pio (il famoso Hludowicianum) insieme ad alcuni brani della donazione di Costantino. Sul lessico della fidelitas è importantissimo Fiore 2017. Un hominium dei senatori nei confronti del papa è tuttavia menzionato, accanto alla fidelitas, in Senato, n. 33 (1177): si tratta della menzione, da parte di Bosone, di una delibera del consiglio comunale romano con cui vennero proposti ad Alessandro III alcuni accordi. Si tratta però, in questo caso, appunto di una proposta e non di una ratifica.
46Bottazzi 2012, p. 279 (Pisa), 284 (Viterbo), 286 (Genova), 289 (Milano), più in generale Guerrini 2013, p. 21-22 (dove si parla anche di Assisi e Reggio Emilia nonché di altre città nel Duecento). Su Milano si veda anche Bottazzi 2020.
47Mancini 2001, p. 59-68; Esposito – Mancini 2023. Su impiego e reimpiego di marmi e monumenti antichi nel Mediterraneo medievale è fondamentale la sintesi di Greenhalgh 2009.
48Thomas 1998. Per il rinascimento giuridico a Roma almeno Wickham 2013, cap. 6.
49Pergola 2003, p. 23 (Leone IV); Gesta Frederici, p. 21-22 (discorso del 1155); Bolle 2019, p. 225-266 (casa dei Crescenzi); Statuti II 191, p. 188 (Statuti).
50Il discorso sui Mirabilia è sviluppato in Internullo 2020.
51Si veda su questo La Rocca 2010, p. 6-8. È interessante notare come i concetti di vetustas e renovatio, ben presenti in epigrafi romane, fonti giustinianee e lettere di Cassiodoro, siano espressi anche nelle formule che sanciscono il trasferimento su pergamena di documenti molto rovinati perché originariamente scritti su papiro, trasferimento che in buona parte dei casi data al XII secolo: cf. Radiciotti 2009, p. 163 e Carbonetti 2009, p. 59-60.
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Reconstruire Rome : la restauration comme politique urbaine, de l'Antiquité à nos jours
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