Introduzione
p. 127-135
Texte intégral
Hé bien, la guerre!
Choderlos de Laclos, Les Liaisons dangereuses, Lettre 153
1Se non proprio un annus horribilis, il 1423 fu un anno dagli effetti particolarmente sentiti, e costantemente considerato dai fiorentini quale momento iniziale delle offese ricevute da parte di Filippo Maria. Infatti, il Prohemium ai capitula pacis del 19 aprile 1428 (ossia gli accordi che, dopo la battaglia di Maclodio dell’ottobre 1427, cercavano per una seconda volta di pacificare il blocco antivisconteo con il duca di Milano, dopo un primo trattato del 1426) si apriva con la richiesta di una «remissio iniuriarum» proprio «ab anno Domini millesimo quadringentesimo vigesimo tertio»1; e ancora quasi un trentennio più tardi, dopo la stipula della pacificazione lodigiana, i Fiorentini si sentirono finalmente usciti da un periodo di forte conflittualità militare, iniziato precisamente nel 14232. Nella retrospettiva – forse un po’ troppo “mazdeista” – di molti fiorentini, quell’anno rappresentò un vero e proprio spartiacque (per usare un termine caro a John Najemy3), tra la situazione irenica succeduta alla morte di Ladislao di Durazzo e un lungo e destabilizzante momento di conflitto:
Dal 1413 al 1423 avemo una pacie molto tranquilla e senza sospetto, et il comune aveva poca spesa di giente d’arme, et non si ponevano graveze o poche tasse, per modo che la terra ne venne molto meno pechuniosa, […] le donne e gli uomini non vestirono mai meglio di vestimenti ricchi, ben fatti, e puliti, e le donne molto ornate di brocchati, richami e gioie, perle e cappucci alla franzese, […] la ciptà riccha di danari contanti e di merchatantie e di possessioni, crediti di monte più ch’a niun altro tenpo, mentre la nostra ciptà era stata in ghuerra e in ghrave spesa anni Trenta, cioè dal 1423 al 14534.
2Il giudizio pare condiviso, non senza finalità ideologiche, dal Guicciardini, secondo cui i Fiorentini, nel periodo seguito alla morte di Ladislao,
ebbono tanti successi, e nella città che si conservò libera, unita e governata da uomini da bene e buoni e valenti, e fuora, che si difesono da inimici potentissimi e ampliorono assai lo imperio, che meritamente si dice che quello è stato el più savio, el più glorioso, el più felice governo che mai per alcuno tempo abbi avuto la città nostra;
3un priorista descrisse poi alcuni dei segni della floridezza economica di questo periodo:
Eccone brevemente un’idea: vi erano settantadue banchieri in Mercato Nuovo e questi oltre alle cambiali estere, avevano ancora il traffico interno, e continuamente erano capaci di somministrare la rispettabil somma di quattro milioni di fiorini. I negozi di seta erano innumerabili […] ed altrettanto era quello della lana. Le altre Arti poi fiorivano al sommo […].
4Viene subito dopo citata l’esperienza delle galee in Oriente per avere privilegi commerciali, e si conclude inserendo nel novero dei mirabilia del momento l’ingegno edilizio di Brunelleschi e la preziosa eleganza di Leonardo Bruni5.
5La realtà era tuttavia ben diversa da quella stilizzata e idealizzata da Giovanni Rucellai e Francesco Guicciardini: innanzitutto, se i pericoli esogeni si erano fatti meno importanti di quanto non fossero stati al tempo dello “Stato-forza” di Gian Galeazzo Visconti6, i dissensi interni avevano aperto la strada a conflitti intestini (quattro congiure furono sventate), e a quel fazionalismo che fu caratteristico della vita politica fiorentina del secondo quarto del secolo7. In ragione dei continui cambiamenti istituzionali (o, comunque, delle transizioni politiche), Anthony Molho ha quindi parlato di Firenze come di un stato territoriale atipico8; ed è altrettanto noto come le «civili discordie [e le] intrinseche amicizie» fossero, per Machiavelli, la chiave per la comprensione della storia politica fiorentina9.
6A nostro avviso, però, ciò che contraddistingueva lo scontro tra Albizzi e Ricci-Alberti prima, e tra Albizzi e Medici poi, risiedeva nella natura oligarchica del potere conteso10 : dalla fine del Trecento, l’evoluzione in senso autonomo (potremmo quasi dire ‘pre-statale’, se non rischiassimo di cadere nell’insidiosa trappola dell’hindsight bias11) del governo fiorentino aveva cambiato le ambizioni dei reggimenti, flessi ormai sempre più verso una manipolazione e una monopolizzazione del potere, pur nel rispetto delle normative comunali12. Tutto ciò complicava la macchina governativa, già di per sé alquanto articolata e complessa, e lasciava la classe dirigente fiorentina di fronte ai propri limiti13. Se è vero, infatti, che i dieci anni che seguirono la morte del re di Napoli (una manna per i Fiorentini14) permisero un alleggerimento della pressione fiscale e diedero a Firenze l’occasione per ricostruirsi, ampliare il proprio territorio e dotarsi di un apparato navale ora finalmente realizzabile15, e che «cominciata la guerra [contro Filippo Maria nel 1423], guadagnammo poco in tutto ’l tenpo d’essa»16, è anche vero che i problemi non mancarono.
7Nel 1417, ad esempio, alcune pestilenze (e i tentativi di risoluzione che si erano trovati) avevano minato l’integrità della città:
L’anno 1417 fu infelice per la nostra città; perciocché cominciata in essa una leggiera pestilenza, andò in guisa col caldo della stagione [perché scoppiò nel giugno di quell’anno] crescendo, che in tutto il corso dell’anno fece strage di più di 16 mila di persone, essendovi stati de’ giorni che il numero de’ morti arrivò fino a 150. […] fecero altresì venir di nuovo in Firenze la tavola della Madonna dell’Impruneta per liberarsi della peste17.
8La processione, naturalmente, non fece che accelerare la diffusione del virus, e la descrizione sembra non essersi ammantata dei toni dell’esagerazione: incrociando i dati d’archivio con le fonti letterarie, Ann Carmichael ha infatti potuto evidenziare come la virulenza della peste del 1417 fosse decisamente elevata, al di sopra non soltanto delle epidemie che si erano succedute tra il 1400 e il 1417, ma anche di quelle che sarebbero scoppiate negli anni a venire18.
9Nel decennio 1413-1423, inoltre, la classe dirigente non si rivelò pronta ad apportare le modifiche istituzionali necessarie per far evolvere in senso statale la repubblica19, checché ne faccia nostalgicamente dire il Guicciardini a Neri Capponi20, per il quale, «secondo le opinioni di ognuno che ha parlato e scritto di queste cose, non fu mai stato in Firenze chi l’abbia meglio governata e più onorata» del regime albizzesco21. L’esempio più eclatante di tale ingorgo politico è rappresentato dalla deludente vicenda degli Statuti quattrocenteschi, che mostra bene questa andatura altalenante e non sufficientemente incisiva tenuta dall’élite politica. Il progetto di una ridefinizione del corpus statutario era stato preso in considerazione già 1394, dopo le note vicende dell’espulsione degli Alberti e dei Ricci, e la vittoria della fazione capeggiata da Maso degli Albizzi22. Solo nel 1409, però, il lavoro di redazione degli Statuta prese seriamente vita, e venne affidato a una commissione di dieci cittadini, non esperti di diritto, giudicati quindi idonei allo scopo per virtù personali e non professionali: si trattava ovviamente di una commissione altamente politicizzata, che vedeva tra i suoi componenti i maggiori esponenti del reggimento, quali ad esempio lo stesso Maso degli Albizzi e Niccolò da Uzzano. Il nuovo assetto legislativo fu quindi promulgato una prima volta nel 1409, con ambizioni politiche evidenti fin dall’architettura testuale, che ricalcava il modello per collationes tipico della legiferazione giustinianea, (senza contare i prestiti terminologici)23. L’organizzazione plasmata sul modello del Corpus iuris civilis, e la stratificazione stessa delle varie sezioni (le normative più recenti sono solitamente messe in primo piano) avevano ovviamente una chiara funzione politica: una giuspubblicistica di diretta derivazione romana e una presentazione cronologicamente orientata del materiale statutario legittimavano, nell’insieme, i fondamenti della nuova legislazione e, di riflesso, gli intenti del reggimento. Il testo statutario fu però riformulato nel 1415 (anche nella struttura24), per essere infine cassato in diverse sue sezioni nel 141725. Il fallimento della nuova legislazione diventa dunque la cartina al tornasole di una gestione politica azzardata, spesso inefficace proprio a causa di una scarsa capacità – da parte dell’oligarchia al governo – di integrazione delle esigenze della classe dirigente con le tradizioni comunali26. Attraverso espedienti tecnici e sforzi ideologico-letterari, il gruppo dirigente sperava di orientare l’opinione pubblica per mezzo di una feroce condanna degli eventi tra il 1378 e il 1382, una propaganda di opposizione necessaria per legittimare le proprie presenza e continuità nella conduzione della repubblica.
10Emblematiche, ad esempio, le considerazioni negative espresse dall’autore che più di altri seppe incarnare l’ideologia del reggimento, Leonardo Bruni, il quale si fece vero e proprio interprete e servitore del momento albizzesco27, sancendone la prassi politica28. Non possiamo passare infatti sotto silenzio il severo giudizio del Bruni contro la rivolta del 1378, vista come causa della rottura degli equilibri non solo interni a Firenze ma anche interstatali, una opinione che esprimeva naturalmente il rifiuto da parte dell’oligarchia guidata da Maso e Rinaldo29; né va dimenticato che, dopo aver destinato a Martino V la versione latina dell’Etica Nicomachea, e a Cosimo de’ Medici la traduzione degli Oeconomica30, nel 1421 il futuro cancelliere della repubblica dedicò proprio a Rinaldo il trattato De militia31. Tale dedica lega dedicante e dedicatario in un rapporto di adesione ideologica. L’opera, infatti, è incentrata sulla definizione di un ideale cavalleresco quattrocentesco che, per l’autore, era archetipicamente rinvenibile nell’Albizzi32. Sul piano delle manipolazioni elettorali, Renzo Ninci ha poi dimostrato come lo stratagemma del rimbotto (ossia l’aggiunta di specifici nomi alle borse elettorali) e l’uso del borsellino (e cioè, in breve, di un bacino pre-selezionato di eleggibili per alcune cariche) fossero tipici del periodo albizzesco33, che giustificava tali deviazioni elettorali – apertamente favorevoli alle Arti maggiori – con la paura di ricadere nel disordine seguito al tumulto dei Ciompi. Inoltre, lo svuotamento delle borse del 1382 (e, dunque, l’estinzione di un bacino di reclutamento chiaramente vicino alla politica di Maso degli Albizzi) andava a coincidere proprio con l’approvazione degli Statuta nel 1415, segno di una volontà di proseguire altrimenti una determinata condotta politica.
11Il grande e audace progetto di ridefinizione costituzionale accarezzato da Maso e Rinaldo degli Albizzi non era però universalmente ben accolto34: il malcontento e le opposizioni erano infatti lontani dall’essere sedati (ben ce lo ricorda Giovanni Cavalcanti) e, per la compilazione e la metabolizzazione degli Statuti, ci sembra di poter concludere che il passaggio dalla rappresentanza sociale a quella politica non avrebbe potuto attuarsi secondo le stesse modalità che avevano investito la pratica diplomatica35. Pertanto, l’indebolimento statutario di figure un tempo chiave dell’assetto sociopolitico fiorentino (quali il Giudice degli Appelli, l’Esecutore degli Ordinamenti di Giustizia, i Rettori, i Capitani del Popolo) a vantaggio dei Priori e del Gonfaloniere di Giustizia (in una parola, della Signoria) determinò su più vasta scala non tanto la vittoria di una fazione sulle altre, quanto un trasferimento di poteri coerente con l’evoluzione del Chomune in direzione “statuale”36. In maniera molto più visibile di quanto non avrebbero in seguito fatto concretamente le riforme medicee, la nuova legislazione avrebbe quindi potuto lacerare il tessuto costituzionale e istituzionale della repubblica, e i tentativi della classe dirigente non sortirono l’effetto sperato.
12Vi erano poi questioni socioeconomiche mai davvero risolte, alle quali erano stati portati puntualmente rimedi palliativi, che non si tradussero in tentativi di reale soluzione. Sul piano fiscale, ancora nel 1422 sussisteva un sistema di prelievo basato sulle prestanze (cioè prestiti forzosi), stabilito nel 141137. La necessità di misure fiscali più adeguate – che sfoceranno nell’adozione del sistema catastale, nel 1427 – cominciò proprio nel 1423 a farsi imprescindibile, investendo il dibattito pubblico e riversandosi sulle scelte da prendere in politica estera38. Durante quell’anno, inoltre, è possibile notare una sorta di stimolo propulsivo nelle decisioni politiche della repubblica nell’ambito del conflitto col duca di Milano39: se, da un lato, la fuoriuscita – difficile, va riconosciuto – dallo stato inerziale si tradusse in una ricerca disperata di alleati, dall’altro essa spinse, proprio durante questa ricerca, alla selezione di uno spazio politico-diplomatico sempre più definito in senso peninsulare, potremmo dire “italiano”, che solo in ultima istanza si vedeva costretto ad allargarsi al di là delle Alpi40. A partire dai documenti di questo periodo, la difesa della florentina libertas inizia ad accompagnarsi alla conservazione della «pace di tucta Italia», e a percorrere in filigrana tutte le richieste di aiuto, diplomatico e militare, provenienti da Firenze.
13L’anno 1423 dimostra di essere dunque un pivotal moment per le vicende e le dinamiche inerenti alla prima guerra antiviscontea del XV secolo, presentando alcuni eventi-cardine che si intrecciano e a volte si compenetrano, creando una fitta trama di giochi politici, di intese, di aspirazioni. Per mostrarne alcuni aspetti, prenderemo le mosse dalle occupazioni, da parte delle genti d’armi del duca di Milano, di alcune città del versante adriatico soggette al governo di altri Signori. Tali invasioni avrebbero determinato invii di ambasciatori in lungo e in largo nella penisola da parte fiorentina, arrivando a coinvolgere anche l’imperatore. Per capire cosa rappresentarono, nel complesso, le violazioni milanesi, e quali furono le risposte fiorentine all’ingerenza viscontea in uno spazio politico e geografico conteso, cercheremo innanzitutto di comprendere come si svolsero e cosa significarono gli eventi di Forlì e di Imola, vere e proprie pietre miliari nella presa di coscienza, da parte di Firenze, della necessità di una linea politico-diplomatica più ferma.
Notes de bas de page
1 ASFi, Cap., App., 12, doc. 18.
2 ASFi, CP, 53, cc. 155v-157v, 22 febbraio 1455.
3 Najemy 2006a, p. 188: «The half-century from the 1380s to the 1430s is the watershed of Florence’s republican history» . Il sostantivo ricorre diverse volte nel lavoro dello storico statunitense, in riferimento ogni volta a eventi differenti.
4 Giovanni di Pagolo Rucellai, Zibaldone quaresimale, p. 46, 61-62, 122.
5 Cfr. rispettivamente Francesco Guicciardini, Storie fiorentine, p. 63; Priorista fiorentino istorico, IV, p. 16.
6 La definizione è di Federico Chabod in Scritti sul Rinascimento, p. 197.
7 Su alcune di queste scissioni intestine, si vedano Faini 2006; Masi 1927; Klapisch-Zuber 2006. Naturalmente, le divisioni interne alla città erano ben antecedenti al Quattrocento, al punto che lo stesso guelfismo fiorentino ne era stato investito (non occorre ad es. soffermarsi qui a ricordare i Guelfi Bianchi e i Guelfi Neri). Si veda ad es. Bowsky 1958.
8 Molho 1995, p. 133.
9 Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, Proemio, p. 281.
10 Najemy 2007, p. 390.
11 Behan McCullagh 2000 (e, parallelamente, Dance 1954).
12 Si vedano almeno Ninci 1988b; Kent 1978; Molho 1968a; Fubini 1994b; Ricciardelli 2007.
13 Brown 2016, p. 98; Fubini 2009c, p. 228; Brucker 1977, p. 396-397 e sgg; De Angelis 1990, p. 151. Più in generale, rimandiamo a Taddei 2004; Florence (1200- 1530) 2014. Si veda anche Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, lib. III, cap. 29, p. 467: «Dopo la morte di questo re <scil. Ladislao>, stette la città quieta, fuori e dentro, otto anni; in capo del qual tempo, insieme con le guerre di Filippo duca di Milano, rinnovorono le parti; le quali non posorono prima che con la rovina di quello stato, il quale dal 1381 al 1434 aveva regnato, e fatto con tanta gloria tante guerre […]». È interessante come l’esaltazione del periodo tra la morte del re di Napoli e i fatti di Forlì porti il Segretario a elogiare persino quel regime oligarchico che, subito dopo (lib. IV, cap. I-III) criticherà come oppressore.
14 «E così la morte fu sempre più amica a’ Fiorentini che niuno altro amico, e più potente a salvargli che alcuna loro virtù» (Istorie fiorentine, lib. III, cap. 29, p. 467). Va riconosciuto che, tanto per Ladislao quanto per Gian Galeazzo Visconti, il decesso improvviso del nemico impedì puntualmente che Firenze fosse invasa e conquistata, in tal modo «liberandola da un incubo» (Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, p. 8).
15 Mallett 1967; Plebani 2015; Becker 1968b; Ciappelli 2009b, p. 101-102. Anche in questo settore, tuttavia, sembra che la classe dirigente non sia stata pronta a comprendere fino in fondo la complessità degli investimenti di cui l’azione commerciale navale aveva bisogno, mostrandosi così incapace di far fruttare la nuova dimensione marittima (e territoriale) della città. Ciccaglioni 2009 – che però crediamo vada letto congiuntamente a Tognetti 2010, il quale ne smorza l’ «eccesso di pessimismo e una certa dose di expostismo» (p. 165).
16 Goro Dati, Istoria, p. 119-120.
17 Priorista fiorentino istorico, vol. 3, p. 152.
18 Carmichael 2014, p. 63 (Graph. 3.1). Per alcune considerazioni generali, si possono vedere Trexler 1980, p. 361-364; Mazzi 1984.
19 Antonio Suriano, ambasciatore veneziano a Firenze, scrisse al Senato che, a parer suo, Firenze era una democrazia dove coloro che non capiscono nulla di gestione politica governano (al punto che, con tali premesse disastrose, l’ambasciatore restò impressionato dalla longevità della repubblica fiorentina). Gilbert 1968, p. 500.
20 L’avverbio è usato consapevolmente: come rileva Florence Alazard, infatti, e come si può leggere in molta della produzione politico-storiografica rinascimentale, la nostalgia rappresenta un elemento emotivo peculiare della cultura politica tra fine XV e primo XVI secolo. Alazard 2002b, p. 30. Attraverso tale sentimento nostalgico, gli autori finivano col mitizzare certi periodi della storia della loro città (o dell’Italia intera), deformando gli avvenimenti e il loro senso per criticare le situazioni contemporanee. È il caso dei lamenti, studiati a più riprese da Alazard, che molto spesso descrivono il XV secolo come un tempo idilliaco e senza contrasti. Alazard 2007, p. 444 (la studiosa si riferisce in questo caso al Lamento de Italia, del 1536).
21 Francesco Guicciardini, Dialogo del reggimento di Firenze, p. 44-45. Sulla (re) interpretazione del passato da parte di Guicciardini, si vedano almeno Gilbert 1965 (con particolare attenzione al cap. V); Fubini 1997; Fournel 2008. Per uno studio di più ampio respiro, si veda La pratica della Storia in Toscana 2009.
22 L’effetto delle “battiture” (ossia delle balìe che, nell’ultimo quarto del Trecento, epurarono la classe dirigente definitasi dopo la caduta delle Arti minori) di cui parla Machiavelli (Istorie fiorentine, lib. IV, cap. 1, p. 231) fu appunto la selezione di un gruppo di cittadini – solitamente definito dalla storiografia come oligarchia – che, sotto la guida di Maso degli Albizzi prima e di suo figlio Rinaldo poi, condusse la vita politica fiorentina fino agli inizi degli anni Trenta del XV secolo. Si vedano anche Molho 1968b; Ninci 1988b. Interessanti spunti in Somaini 2012c, p. 250-255.
23 Tanzini 2004; Tanzini 2002.
24 Lepsius 2011.
25 Fubini 1990a, p. 44-62; Fubini 1994b, p. 74-76. Più in generale, cfr. Herlihy 1991; Brucker 1977, cap. VII; De Angelis 2014b; Fubini 1987.
26 Cfr ad es. Viallon-Masi 2008, p. 435. Una attenzione diversa a evitare un eccessivo snaturamento delle fondamenta “repubblicane” sarà invece la colonna portante dell’egemonia medicea (cosimiana, naturalmente, ancor prima e ancor più che laurenziana). Rubinstein 1971; Rubinstein 1992; Molho 1979; Kent 1978.
27 «Bruni was not only linked to such men <scil. Rinaldo degli Albizzi, Palla di Nofri Strozzi, Francesco Filelfo, notoriamente antimedicei> by ties of patronage and friendship; he had also for many years acted as the chief ideologue of the pre-Medicean oligarchy» . Ianziti 2008, p. 2.
28 Fubini 1990a, p. 44-47.
29 Giudizio naturalmente condiviso anche dal Guicciardini nel suo Discorso di Logrogno (lavoro che, col Dialogo del reggimento di Firenze, costituisce uno degli scritti più importanti tra quelli relativi alle riflessioni dello storico sulle istituzioni fiorentine), dove il pericolo della corruzione dello stato repubblicano in un regime tirannico è pari a un volgimento di stato in direzione “populare”: «[…] el vivere nostro civile è molto difforme da uno ordinato vivere di una buona republica, cosí nelle cose che concernono la forma del governo, come nelli altri costumi e modi nostri: una amministrazione che porta pericolo o di non diventare tirannide, o di non declinare in una dissoluzione populare» (p. 249). Per alcuni giudizi del Bruni sul populus ferox, cfr. Leonardo Bruni, Historiae Florentini populi, lib. II, p. 38; lib. IX, p. 236. Più in generale, cfr. Stella 2002, p. 151; Winter 2012, p. 737. Sulla manipolazione del passato per fini politici da parte del cancelliere fiorentino, si veda anche Ianziti 2008.
30 Garin 1947. È interessante notare come anche in quesi casi di traduzione Leonardo Bruni volesse farsi interprete di un messaggio, fosse anche a scapito della realtà evidente (iniziativa del resto criticata già dai contemporanei del cancelliere), facendo passare per rectus il proprio metodo (De interpretatione recta è infatti il trattato del Bruni sulla traduzione). Si vedano Lines 2012, p. 175 e sgg; Hankins 2003c, p. 243-272; Botley 2004, p. 5-62.
31 L’adesione di Bruni al regime è messa in evidenza anche dalla stessa presenza dell’Aretino a capo della Cancelleria (il Bruni fu infatti preferito ad altri candidati con simpatie medicee). Zaccaria 1990, p. 100-104. Il trattato è edito in Bayley 1961, p. 369-388. Il De Militia, in ogni caso, è ben più di un semplice trattato sugli effetti negativi delle truppe mercenarie (troppo spesso, infatti, Bayley interpreta militia come la parte della cittadinanza che poteva imbracciare le armi, auspicando dunque un ritorno a quella situazione tipicamente comunale), come si può leggere in Rahe 2009, p. 240; Hankins 2003b, p. 172.
32 Castelnuovo 2014, p. 310: «Ce qui revient à dire: comment harmoniser le modèle négatif, celui du magnat […] avec le modèle positif lié aux comportements et aux idéaux chevaleresques et courtois?» .
33 Ninci 1992. Già Peter Herde, in realtà, lavorando sulle CP, aveva sollevato la questione dell’uso di questa e altre strategie – come l’esilio – da parte degli Albizzi; e Ilaria Taddei ha sottolineato come il sistema elettorale instaurasse in definitiva un legame tra l’istituzione comunale e il corpo politico. Herde 1973; Taddei 2013, p. 43.
34 Fubini 1996a, p. 148-149.
35 Fubini 1991. L’opposizione al reggimento non fu certo una caratteristica del solo periodo albizzesco; il successivo regime mediceo ne fu, infatti, ugualmente colpito ma, seppur con brevissime parentesi, Cosimo, Piero e Lorenzo furono capaci di ridurne l’impatto sulla loro politica. Si vedano Rubinstein 1971, passim; Brown 1994.
36 Si veda ad es. Brown 2016, p. 94-97; Fubini 2006, p. 46; Fubini 1994c, p. 47. Per poter apprezzare tale evoluzione su una cronologia più dilatata, si può vedere il recente Florence (1200-1530) 2014.
37 Molho 1971, p. 74-77.
38 Herlihy – Klapisch-Zuber 1978, p. 43-46; Conti 1984, p. 119-124. E se, secondo Anthony Molho, un certo conservatorismo economico regnava tra i membri della classe dirigente, il fondo delle CP mostra come, in realtà, dissensi sugli investimenti e sulla gestione delle risorse era tutt’altro che assenti. ASFi, CP, 45, cc. 156r-158v, 174r-176r. Si veda inoltre Ninci 1995, p. 151-167.
39 Stupisce pertanto non poter riscontrare una attenzione agli eventi relativi di quest’anno né in Bayley 1961, né in alcuni dei fiorentinisti più validi e apprezzati, quali ad es. Gene Brucker (Brucker 1977 liquida nel giro di due pagine, p. 447-449, gli avvenimenti del 1423) o John Najemy (Najemy 2006a, dove non v’è alcuna sezione dedicata).
40 Si veda, per non portare che un esempio inedito, l’istruzione consegnata a Palla di Nofri Strozzi e Cosimo de’ Medici, inviati a Venezia per ottenere un aiuto contro Filippo Maria: «Et dove questo [aiuto] mancasse, il che in modo alcuno non speriamo né crediamo, da somma nicistà saremo costrecti a ricorrere a ogni potentia la quale credessimo fusse a salute della nostra libertà»
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