Francesco I e Genova: quale strategia?
La Francia alla ricerca del «vray secret des affaires d’Italie»
p. 129-151
Résumé
Per la monarchia spagnola del secolo XVI è stato posto con forza il problema dell’esistenza o meno di una « grande strategia » a sostegno dei suoi obiettivi di supremazia continentale (Geoffrey Parker). La risposta, sostanzialmente positiva, ha evidenziato l’importanza per gli Asburgo dell’asse Milano-Genova come « grande arteria di comunicazione imperiale » (Federico Chabod) per l’accesso all’Italia settentrionale e il transito verso l’Europa centrale e settentrionale. All’inizio della competizione tra gli Asburgo e i Valois Genova era sottoposta in regime pattizio a Francesco I di Francia, e di nuovo lo fu tra il 1527 e il 1528, ma fu poi attratta e infine saldamente collocata nel sistema spagnolo. La strategia di Francesco I riguardo a Genova, e le sue iniziative politiche e militari negli anni Venti del secolo XVI miranti ad acquisirne il dominio e contrastarne l’inserimento nell’orbita imperiale sono i temi affrontati dal presente saggio.
Texte intégral
1È bene precisare subito che la domanda contenuta nel titolo intende porre un problema, non risolverlo. Molti sono i nodi di tipo metodologico, documentario e storico ancora da sciogliere prima di poter fornire una risposta soddisfacente. Il presente saggio, frutto di una ricerca in corso, intende delineare i termini della questione e fornire alcune ipotesi interpretative.
2L’approccio alla storia politico-militare della prima età moderna dal punto di vista delle strategie ha delle peculiarità che cercheremo di mettere a fuoco con una rapida ricognizione storiografica, finalizzata anche a delimitare il campo d’indagine e ottenere una definizione utile di strategia. La definizione verrà quindi illustrata con due esempi e si procederà poi ad un’analisi comparativa delle strategie asburgiche e francesi riguardo a Genova in alcuni momenti cruciali dell’età di Francesco I, nell’impossibilità evidente di coprire per intero il suo più che trentennale regno.
3Se il tema delle strategie, e in particolare della grandi strategie, nel contesto geopolitico europeo dei secoli XVI e XVII ha suscitato un certo interesse da due decenni a questa parte è merito soprattutto di Geoffrey Parker e del suo The Grand Strategy of Philip II1. La monarchia spagnola, sia per la sua struttura politica e istituzionale, sia per l’abbondanza della documentazione relativa alla prassi consultiva e ai processi decisionali degli organi centrali, e non ultimo per il suo successo nella competizione per l’egemonia in Europa nel Cinquecento, si è dimostrata un oggetto di studio adatto a quel tipo di ricerca. Parker, inoltre, si è inserito in una tradizione storiografica già molto sensibile alla dimensione strategica2. Al contrario, David Potter, che nel primo capitolo del suo Renaissance France at War3 ha posto il problema della strategia per la Francia durante le guerre d’Italia, è partito da un quadro storiografico a dir poco restio ad attribuire ai re Cristianissimi (in particolare a Francesco I), e ai loro entourage, una coerente visione strategica. Ferdinand Lot, ad esempio, in riferimento alla disastrosa sconfitta di Pavia, imputa a Francesco I inettitudine militare e «comme chef d’État [...] imprudence coupable»; e a proposito della campagna del 1527-28 lo accusa di inguaribile «légèreté», di strutturale «incapacité à suivre avec application les affaires même les plus graves». La serie di sconfitte che portarono alla pace di Cambrai (3 agosto 1529), prosegue Lot, furono in gran parte dovute «à son indolence et à son incapacité »4. Cercare strategie in un contesto caratterizzato dalla negligente incompetenza del sovrano poteva apparire un inutile spreco di tempo e di energie.
4Nel solco aperto da G. Parker5, il concetto di ‘grande strategia’ è stato poi utilizzato per la Spagna imperiale a monte e a valle dell’età di Filippo II6 ; ha trovato applicazione all’Impero ottomano7 ; ma non alla Francia dei Valois8. Introducendo un volume collettaneo relativo alle strategie di successo dall’antichità all’età contemporanea, Williamson Murray ha affermato: «History is replete with examples of states, statesmen, and military leaders who failed ignominiously in pursuit of flawed strategy or strategies or who possessed no discernible strategy »9. L’attenta analisi di David Potter consente di escludere almeno l’ipotesi estrema che i re di Francia abbiano affrontato la competizione per la supremazia in Italia privi di qualsiasi visione strategica. Dopo aver registrato la tendenza della storiografia più recente a interpretare il conflitto tra i Valois e gli Asburgo in termini personali, come una «competitive emulation» tra principi basata sulla rivendicazione di diritti dinastici e dominata dagli imperativi della conservazione dell’onore e dell’acquisizione di gloria, Potter osserva che ciò «did not simply involve quixotic or frivolous decisions». I timori per l’accerchiamento geopolitico del regno di Francia e per la rottura degli equilibri di potere continentali conseguente all’ascesa del re di Spagna al trono imperiale costituirono un forte stimolo per la riflessione strategica, che si tradusse già negli anni Venti in una «strategic conception of the role of Italy» nella lotta per l’egemonia in Europa10.
5Se dunque appare legittimo, o addirittura auspicabile, estendere la ricerca sul livello strategico dalle politiche asburgiche a quelle dei loro maggiori competitori cinquecenteschi, Francia compresa, le difficoltà inerenti alla definizione dei concetti di strategia e di grande strategia hanno dato luogo a non pochi equivoci e paradossi. Ad esempio, Martin van Creveld, adottando criteri restrittivi, è propenso ad escludere che una strategia e un comando strategico nel senso classico consegnatoci da Napoleone, Jomini e Clausewitz potessero esistere prima della loro epoca, data l’arretratezza dei sistemi di intelligence e di comunicazione11. L’approccio ad ampio spettro della recente monografia di Lawrence Freedman, Strategy. A History, porta invece l’autore a ritenere che «it existed from the moment primates formed social groupings »12. D’altro canto, Van Creveld è pronto a riconoscere ampia profondità storica alla dimensione dei processi decisionali in campo politico-militare basati sulle conoscenze disponibili riguardo alle proprie forze, a quelle del nemico e dei rispettivi stati: «in this sense, strategy – or should one rather speak of grand strategy? – is eternal and has changed hardly at all from the Stone Age to our times »13. A sua volta, James Tracy, per il periodo qui considerato, precisa che, se la nozione di grande strategia implica un’attenzione esplicita all’incremento della ‘ricchezza nazionale’, nella consapevolezza della sua utilità come strumento della politica estera, «Charles V cannot be said to have had a grand strategy», dato che tale consapevolezza è difficile da rintracciare nelle fonti coeve14.
6Preso atto del rapporto inversamente proporzionale tra la specificazione e precisa articolazione del concetto di strategia e la possibilità di applicarlo ad epoche remote (compresa l’età moderna), non cercheremo certo qui di risolvere il rebus. La definizione adottata Geoffrey Parker è sufficientemente duttile per i nostri scopi, e risulta articolata in due punti. In base al primo, tratto da Everett Wheeler, le strategie globali, o grandi strategie, perseguono
the integration of the state’s overall political, economic and military aims, both in peace and war, to preserve long-term interests, including the management of ends and means, diplomacy and national morale and political culture in both the military and civilian spheres15.
7 Il secondo punto, preso da Edward Luttwak, fornisce un metro di giudizio: le strategie si valutano anche dal grado di dipendenza «on costly force as opposed to the leverage of potential force by diplomacy ( “armed suasion”), by inducements (subsidies, gifts, honors), and by deception and propaganda». Quelle più efficaci, conclude Parker, fanno solo l’indispensabile dal punto di vista militare per sconfiggere o dissuadere gli avversari16.
8Le grandi strategie, prerogativa esclusiva delle potenze collocate al vertice della gerarchia internazionale17, sono, quindi, come elaborazioni teorico-discorsive, degli insiemi complessi, di cui ci preme qui sottolineare tre aspetti. Anzitutto si collocano sul confine tra la dimensione politica e quella militare, o meglio, le abbracciano entrambe18, ma è la politica a detenere il primato19. In secondo luogo le grandi strategie si prestano al giudizio politico e storico. Non solo possono esistere o non esserci dietro l’azione di un dato soggetto all’interno di uno scenario geopolitico, ma possono essere buone o cattive strategie, e il tempo inesorabilmente le seleziona come valide o destinate all’insuccesso. Una buona strategia può naufragare per eventi occasionali, specialmente quando implica l’utilizzo dello strumento militare, che per definizione produce esiti incerti; ma per una cattiva strategia le probabilità dell’insorgere di inconvenienti che portino al fallimento, in base alla legge di Murphy, cresce in modo esponenziale20. Infine, le grandi strategie hanno in sé qualcosa di visionario. Pur senza farsi ammaliare da quello che Lawrence Freedman definisce «The Myth of the Master Strategist», bisogna riconoscere che esse sono in genere prodotte da grandi personalità o da élites molto qualificate quanto a capacità ed esperienza politiche e militari, e sono costruite con un alto livello di astrazione21 : vanno al di là dei ragionamenti su come vincere una battaglia, o anche una guerra; per così dire, pongono il problema del ruolo di uno stato nella competizione internazionale da un punto di vista ontologico, per poi individuarne i vitali interessi di lunga durata e il modo in cui perseguirli o difenderli.
9Due esempi possono essere utili per chiarire i termini del problema e introdurre il tema specifico di questo saggio. I crismi della grande strategia riteniamo siano presenti nella visione imperiale costruita da Mercurino di Gattinara per Carlo d’Asburgo22. Com’è noto, l’assunzione da parte di quest’ultimo del ruolo di supremo garante dell’ordine internazionale all’interno della Cristianità aveva come presupposto, secondo il gran cancelliere, la supremazia in Italia23. Formulato questo principio nel 1521, due anni dopo, a guerra in corso, Gattinara indicò chiaramente come raggiungere l’obiettivo: il predominio in Italia richiedeva il controllo di Milano e Genova, che della penisola erano «les clefs et la porte»; dopo di che, anche i più arditi sogni di potere sarebbero divenuti realizzabili24. A partire dall’elezione imperiale, nel giro di pochi anni questi ‘messaggi’ penetrarono e si consolidarono, trasformandosi in formule. Gattinara stava forgiando una visione geopolitica vincente dello scacchiere italiano ed euro-mediterraneo, anche se non si faceva illusioni sugli sforzi che sarebbero stati necessari per realizzarla. Non da solo, e costruendo, come vedremo, con i materiali già disponibili nella cultura politica e militare italiana del suo tempo, egli esplicitò meglio di altri alcuni capisaldi strategici che sarebbero passati intatti dall’impero di Carlo V alla monarchia spagnola di Filippo II, veicolati nel corso dei decenni da personaggi come Antonio de Leyva, Ferrante Gonzaga e il duca d’Alba25.
10Il secondo esempio è di parte francese, e ci conduce ad una fase posteriore di oltre un secolo del conflitto franco-asburgico. Si tratta di un segmento, ma particolarmente ben strutturato dal punto di vista teorico, del riorientamento strategico e dell’ampia riorganizzazione politica, istituzionale e militare intrapresi da Richelieu durante la guerra dei Trent’anni. Nella seconda parte del Testamento politico, all’interno del nono capitolo ( «Qui traite de la puissance du prince»), troviamo le pagine appassionate della quinta sezione ( «Qui traite de la puissance sur la mer»)26, in cui Richelieu ribalta la visione della Francia accerchiata dai domini asburgici27, e trova il punto debole del gigante spagnolo nella «séparation des Estats qui forment le corps de la monarchie» . Luigi XIII era a capo di un regno a cui la natura aveva «voulu offrir l’empire de la mer», e che la provvidenza di Dio aveva posto come un cuneo tra gli stati di Filippo IV «pour les affoiblir», separando quelli iberici da quelli italiani. Trenta o quaranta galere poste a Marsiglia e a Tolone avrebbero bloccato le comunicazioni tra le due penisole, e il re Cattolico, per quanti sforzi avesse fatto, non sarebbe stato in grado di «réparer le mal que nous luy pourrions faire à cause de l’union de nos forces» . L’Italia, prosegue Richelieu, «est considerée comme le cœur du monde» (Gattinara l’aveva definita «le vrai siege et sceptre pour dominer tout le monde»)28. La Francia vi aveva accesso via terra attraverso la «porte» di Pinerolo, si trattava di aprire «une autre [porte] par la mer» per tenere «l’Espagne en bride »29. La ‘porta’ della monarchia spagnola per l’accesso all’Italia del Nord era Genova (e primo fondamentale snodo dello «chemin de ronde» asburgico sulla frontiera orientale della Francia, per rompere il quale Richelieu combatté strenuamente30), città che i re Cristianissimi avevano a lungo posseduto nei primi tre decenni del secolo XVI, per poi perderla definitivamente.
11Durante le guerre d’Italia ci furono infatti quasi due decenni di dominio diretto su Genova di Luigi XII e di Francesco I, suddivisi in tre fasi di durata decrescente e concentrate tra il 1499 e il 1528. Intorno a quest’ultima data si aprì una ‘finestra strategica’ che offriva straordinarie opportunità alla Francia, ma che presto si chiuse con un clamoroso fallimento politico-militare. Per motivi di spazio, non ci occuperemo qui dei lunghi anni in cui Luigi XII si fregiò del titolo di «Seigneur de Gênes »31, ma è difficile resistere alla tentazione di ricordare il capitolo 3° del Principe di Machiavelli, dedicato pressoché interamente agli esiti non brillanti della politica francese in Italia al 1513. Qui Machiavelli enumera i famosi sei «errori» compiuti da Luigi XII e conclude la sua requisitoria ricordando il battibecco, a Nantes, con il cardinale di Roano, in cui aveva risposto all’accusa che «li Italiani non si intendevano della guerra», affermando «ch’e’ Franzesi non si intendevano dello stato »32.
12Pur tenendo presente la complessità del giudizio di Machiavelli nei confronti della monarchia francese33, non c’è dubbio che tanto Luigi XII che Francesco I, in rapporto a Genova, rientrano nella categoria di coloro che, citando sempre dal 3° capitolo del Principe, «hanno preso provincie», e volendole «tenere», non c’erano riusciti. E il fatto che le avessero perse, prosegue con impertinenza il segretario fiorentino, non «è miraculo alcuno», «ma molto ordinario e ragionevole» .
13Cercando i motivi di tale ‘ordinarietà’ e ‘ragionevolezza’ per quanto compete l’argomento di questo saggio, va anzitutto sottolineato come all’inizio del regno di Francesco I esistesse una dottrina risalente e consolidata riguardo all’asse Milano-Genova, pienamente confermata dai fatti al tempo di Luigi XII, secondo cui Genova avrebbe seguito i destini di Milano. Limitandoci al periodo delle guerre d’Italia, ciò era avvenuto nel 1499, 1512-1513, 1515 e sarebbe di nuovo accaduto nel 1522. Il motto tante volte ripetuto era: «Chi è signore di Milano lo è di Genova »34. Di questo orientamento ‘normale’ del nesso tra i due stati Machiavelli coglie uno dei motivi fondamentali, quello politico-costituzionale, consistente nelle divisioni sociali e fazionarie presenti nella città ligure. Esse determinavano una violenta instabilità e spesso inducevano i Genovesi a ricorrere «alle armi forestiere», per cui «quella patria che loro governare non possono allo imperio d’uno forestiero sottomettono». «Di qui nasceva e nasce – prosegue Machiavelli – che quelli che in Lombardia regnono, il più delle volte a Genova comandono »35.
14 Le due città e i due stati andavano quindi ‘pensati’ congiuntamente dal punto di vista geopolitico, e ciò complicava le cose. Se nel 1505 l’ambasciatore fiorentino presso Luigi XII, Francesco Pandolfini, aveva potuto affermare: «Parmi che, fino al presente, costoro non abbino mai gustato e pericoli di Genova e Lombardia »36, all’inizio degli anni Venti i Francesi avevano ampiamente sperimentato quei pericoli e dovevano aver colmato un eventuale deficit di esperienza. Il quadro generale era nel frattempo, però, profondamente cambiato.
15Non è necessario sottolineare l’importanza del mutamento di scenario determinato dall’elezione a imperatore di Carlo d’Asburgo37. Nella precedente fase delle guerre d’Italia si era conservata una qualche ‘distanza’, in termini geopolitici, tra l’Italia meridionale e settentrionale: c’erano voluti i primi cinque errori machiavelliani di Luigi XII perché quel sovrano iniziasse a minare il suo dominio su Milano, e solo il sesto ( «torre lo stato a’ viniziani», unici suoi potenziali alleati) gli era stato veramente fatale. Dopo l’elezione di Carlo, il solo nominare Milano e Genova immetteva nel campo della grande strategia per il controllo dell’intera penisola. L’Italia non era più un’entità da smembrare e dividere tra i contendenti, come si era fatto con il trattato di Granada nel 150038 ; era diventata, nel piano di Gattinara e nella politica asburgica, un’unità strategica che sarebbe stata utile solo se oggetto di un’egemonia incontrastata. E mentre il gran cancelliere pensava all’asse Milano-Genova come il perno del suo disegno universalistico, Francesco I scriveva nel 1520 al suo ambasciatore a Roma, conte di Carpi, che l’imperatore avrebbe avuto più problemi che in passato, e nei suoi vari domini «assez de demandeurs et peu de donneurs» . A svantaggio del suo rivale egli riteneva giocasse l’eterogeneità e la dispersione dei regni:
car aultant que ses pays sont dispersés en divers lieux et loing les uns des aultres et de l’obéissance et qualité que chacun sçait, il sera assez empesché de les garder et conserver sans chercher aultre chose »39.
16Considerata con il senno di poi, l’affermazione del sovrano francese appare una grave sottovalutazione delle capacità e delle risorse dell’avversario: uno degli errori più gravi che possano esistere in strategia. D’altro canto è fondata su un dato geopolitico, la dispersione territoriale dei domini carolini, che il senso comune induceva a giudicare negativamente40. Comunque sia, non è plausibile che da parte francese, dopo i successi delle armi cesaree nel 1522, e ancor più dopo Pavia, si continuasse sottovalutare la potenza ispano-imperiale41.
17Che gli eserciti di Prospero Colonna e del marchese di Pescara, già vittoriosi nel Milanese, avessero preso Genova nel giugno del 1522 era l’ennesima conferma di quello che abbiamo definito l’orientamento ‘normale’, machiavelliano, del nesso tra le due città ( «quelli che in Lombardia regnono, il più delle volte a Genova comandono»). Tale situazione, pur nell’infuriare della guerra, rimase stabile fino all’agosto del 1527.
18Gli accordi di Cognac del maggio 1526 tra la Francia e i maggiori stati italiani, con la sola eccezione di Genova e Siena, diede vita ad una vasta coalizione che, grazie alle forze navali veneziane e alle galere di Andrea Doria (prima al servizio di Clemente VII, poi di Francesco I), poteva permettersi una strategia di attacco combinato terrestre e marittimo, in Lombardia e Liguria, contro le posizioni di Carlo V. In tale contesto balzò alla ribalta una seconda configurazione dell’asse Milano-Genova, di orientamento ‘inverso’ rispetto alla precedente. Declinata in ottica offensiva, consisteva nel quesito se Genova, una volta conquistata, fosse in grado di tirarsi dietro Milano; in ottica difensiva, se si potesse tenere Milano senza avere Genova.
19Il problema si era posto fin dall’inizio delle guerre d’Italia. Già nel 1505, alla vigilia della rivolta delle ‘Cappette’ contro Luigi XII42, l’ambasciatore fiorentino Pandolfini avvertì i ministri del re «che, senza Genova, male si possono conservare lo stato di Milano »43. Il messaggio venne recepito: Claude de Seyssel sottolineava che «Gennes [...] est en partie la seureté dudict duché [de Milan] »44, e Giullaume de Marillac, segretario di Carlo di Borbone, nel descrivere le trattative con Ottaviano Fregoso subito prima di Marignano, affermava che
la réduction de ladite seigneurie de Gênes en la main du roy étoit nécessaire à mondit sieur plus que chose au monde. Et mondit sieur le connoissoit et entendoit fort bien ; car, sans cela l’autre entreprinse de Milan ne se pouvoit bonnement conduire »45.
20Nel 1526-27 la questione divenne centrale, e fonte di perplessità e polemiche riguardo alle priorità strategiche della Lega. Nel settembre-ottobre del 1526, più volte il provveditore da mar Alvise d’Armer, impegnato con la flotta franco-veneziana nel blocco navale di Genova, sottolineò l’assoluta necessità di sottrarre agli Imperiali la città e il corridoio ligure verso la Lombardia: «chi haverà Zenova sarà signor de Milan, perché non potrano più haver danari di Spagna, né zente» (22 settembre); «Per questa porta l’imperador manda dinari, zente, victuarie, cambi et ogni altra cosa necessaria per la guerra; siché Zenoa è di grandissima importanza» (24 settembre); «Cui haverà Zenoa haverà etiam el Stado de Milan. Zenoa è la chiave de tutta Lombardia; è quella che dà il viver al Stado de Milan, et preso Zenoa, Milan non si poria tenir et per consequens tutto si ultimaria» (23 ottobre)46.
21Com’è noto, nella tarda estate del 1526, il duca d’Urbino, comandante delle forze veneziane in Lombardia, puntò su Cremona a scapito di Genova47. Alvise d’Armer non fu il solo a ritenere questo un errore strategico48. Anche Francesco Guicciardini, luogotenente papale presso l’esercito, era convinto «che il perder più tempo intorno a Cremona, sia cosa perniziosa, perché si perde l’opportunità di prender Genova, che è la maggiore importanza di questa impresa »49. L’obiettivo di strappare la città ligure a Carlo V venne raggiunto nell’agosto dell’anno successivo grazie, finalmente, ad un efficace coordinamento tra l’esercito francese agli ordini del Lautrec e la squadra navale impegnata nelle operazioni di blocco, comprendente otto galere di Andrea Doria50. Per gli Imperiali fu un colpo durissimo. Per la prima volta dal 1494, a guerra in corso, Milano e Genova erano su fronti opposti.
22Che la situazione si configurasse come una straordinaria opportunità per i Francesi lo testimoniano le valutazioni di parte spagnola, tra le quali quella dell’ormai ex-ambasciatore a Genova Lope de Soria spicca per chiarezza e perentorietà. Egli scrisse il 17 settembre 1527 a Carlo V:
Lo que más conviene al estado y servicio de vuestra magestad es tener Génova, porque es la puerta y llave de Italia y por donde se da forma de aver dineros y avisos y fuerças de armada de mar y otras muchas comodidades, por lo qual deve vuestra magestad cobrarla o por acordio o por fuerça51.
23Nel gestire quell’opportunità, Francesco I dovette confrontarsi con una situazione abbastanza favorevole su piano militare ma molto complessa su quello della politica interna genovese. Andrea Doria era al servizio della Francia, e con le sue galere controllava il mar Ligure e ostacolava efficacemente le comunicazioni tra i regni asburgici. Teodoro Trivulzio fu nominato governatore di Genova, e fu una buona scelta da più punti di vista, soprattutto perché disinnescava, almeno parzialmente, la competizione tra le parti degli Adorno e dei Fregoso. Egli avrebbe potuto essere un buon mediatore con la corte rispetto ad un progetto di riforma, ormai maturo negli ambienti cittadini, volto ad eliminare le fazioni e stabilizzare il quadro politico. Un altro dato significativo, e potenziale fonte di conflitti, era che fin dall’agosto del 1526 Savona era sotto il diretto controllo francese, e Charles de Solier, signore di Morette e governatore, vi aveva organizzato la riscossione di una gabella del sale.
24Le magistrature genovesi chiesero subito al re l’approvazione della riforma politico-istituzionale e la restituzione di Savona. Entrò a questo punto in scena un inviato speciale di Francesco I, l’umanista Jacques Colin, «secretaire de chambre du Roi», che aveva come referenti a corte il cancelliere Antoine Duprat e il gran maestro Anne de Montmorency. Furono le sue informazioni e le sue analisi che, a quanto pare, orientarono le scelte francesi sulle delicate questioni aperte a Genova.
25Le lettere del Colin, inviate tra l’ottobre del 1527 e l’inizio del 1528 (conservate al Musée Condé e utilizzate magistralmente a inizio ‘900 da Bourrilly52) suscitano molte perplessità. Il ragionamento del Colin è tutto centrato sui vantaggi finanziari che la corona avrebbe tratto dal commercio del sale e dagli altri dazi savonesi. Sull’alternativa tra usare «douceur» o «rigueur» nei confronti di Genova, egli consigliò la linea dura a causa delle divisioni interne, che non permettevano di aspettarsi la riconoscenza di tutti. Diede inoltre il suo avvallo ad un’ipotesi a dir poco inquietante, che evidentemente circolava a corte: «mectre la main au Sainct-George» in nome del diritto di conquista53. Il fatto è di particolare rilievo per più ragioni. Anzitutto perché un’iniziativa di quel tipo avrebbe avuto gravissimi effetti destabilizzanti. La Casa di San Giorgio, in quanto organizzazione dei creditori dello stato, deteneva gran parte delle entrate fiscali, amministrava vaste porzioni del dominio genovese, e grazie alla sua solidità economica attirava ingenti e diffusi investimenti finanziari, remunerati con un interesse moderato ma sicuro. Tutto questo, in una città turbolenta e con un Communis Ianuae preda della lotte di fazione, aveva reso San Giorgio oggetto di una sorta di ‘venerazione politica’; i Genovesi, afferma Machiavelli, «hanno levato lo amore dal Comune, come cosa tiranneggiata, e postolo a San Giorgio, come parte bene e ugualmente amministrata »54. Se il re avesse cercato di impadronirsi dei forzieri della Casa, quindi, non avrebbe colpito, come affermava Colin, solo «une compaignye de marchans» che si era appropriata dei «droictz seigneuriaulx» dello stato per sfruttarli a proprio vantaggio, ma avrebbe rischiato di abbattere un pilastro, forse il più importante, su cui si reggeva la società genovese, con il probabile risultato di compattarla contro di lui.
26 Il secondo dato, forse ancora più rilevante, è che approcci di questo tipo erano evidentemente nelle corde della monarchia francese e facevano parte della concezione del potere regio, se già Luigi XII, come riferì nel 1507 Francesco Pandolfini, intendeva intervenire con durezza contro i ribelli genovesi e, come misura punitiva, voleva «levare via San Giorgio» e «pigliare quell’entrate lui» . Il fiorentino Pandolfini si diceva convinto che, così facendo, «questa Maestà sarà manco sicura di Genova che prima »55. Si tratta di una deduzione profondamente ‘politica’; e un giudizio negativo sulle capacità politiche dei Francesi è quello emesso pochi anni prima da un altro fiorentino, Machiavelli, che li descrive «accecati da la potenzia loro e da l’utile presente» e disposti stimare «solamente o chi è armato, o chi è parato a dare »56. Questa giudizio è di poco anteriore alla famosa risposta del segretario fiorentino al cardinale di Roano che «e’ Franzesi non si intendevano dello stato», e la completa. Che le carenze più gravi della strategia francese fossero di natura politica, la vicenda genovese del 1527-28 lo dimostra con chiarezza.
27Il vedere «discosto »57, com’è noto, è una componente fondamentale della virtù politica e della prudenza machiavelliane, ed è l’antitesi dell’essere «accecati [...] da l’utile presente» . Il Colin insistette a più riprese sugli enormi profitti che la monarchia avrebbe tratto annualmente dai dazi di Savona, ben superiori, secondo lui, ai 100.000 scudi una tantum che i Genovesi erano pronti a sborsare per ottenere la restituzione della città. La conclusione dell’inviato francese, espressa in una lettera a Duprat, ha ancora un accento ‘marziale’ e richiama il diritto di conquista: «Si vous baillez Savonne aux Genevoys ainsi qu’ils la demandent, toute la victoyre que vous avez eue à Gènes sera tournée au proffict des Genevoys et à vostre dommage »58.
28Da un punto di vista strategico quest’analisi appare di una debolezza estrema, e contiene, per così dire, un errore logico, in cui caddero, insieme al Colin, Duprat e Montmorency, e quindi Francesco I: ragionare in termini di profitti finanziari immediati quando è in ballo un interesse vitale e di lungo periodo è perlomeno incongruo, miope59. Per salvaguardare quell’interesse si deve essere disposti a investire in una prospettiva di vantaggi a lungo termine, o anche solamente di danni scongiurati, in rapporto al nemico che si ha di fronte. È necessario includere nella propria stima di una cosa, una persona, un luogo, l’importanza che hanno per l’avversario. L’alleanza genovese contava molto per Carlo V; per averla, lui e i suoi successori pagarono, in molti modi, un prezzo salato, ma il gioco valeva la candela.
29Come pietra di paragone, sul piano della visione strategica, c’è un’altra significativa analisi di parte francese, anche se il suo autore al servizio del Cristianissimo ci sarebbe rimasto ancora per poco. Essa è contenuta in una lettera di Andrea Doria ad Anne de Montmorency del 15 marzo 152860. Si tratta di un capolavoro di scrittura reticente, obliqua; una sorta di ultimo avvertimento, o un quasi-commiato, che il Doria ritenne politicamente utile inviare mentre ancora era contrattualmente legato a Francesco I, ma già si muoveva alla ricerca di altre soluzioni. Egli fece anzitutto presente la delusione e lo smarrimento dell’opinione pubblica genovese, del «peuple en general», di fronte al mancato assenso del re alla riforma istituzionale. Sottolineò quindi gli effetti economici negativi per la città dell’attuale situazione e le ingenti spese da essa sostenute. In mancanza di aiuto finanziario, «quelque soubdaine nouveté, que Dieu ne vueille», poteva essere dietro l’angolo. Nella parte centrale della lettera attribuì all’interlocutore una consapevolezza strategica che la stessa politica francese aveva dimostrato non esistere: «Vous savez de quelle importance est la dicte ville [de Gênes] audict seigneur [roi]»; e lanciò quindi una severa critica: «et croy certainement si durant les guerres passées il en eust peu avoir faveur les chose feussent tournées en meilleure forme». Il Doria affermò quindi che solo appoggiando la riforma e restituendo il pieno controllo di Savona ai Genovesi il re avrebbe riconquistato «l’amour et bienveillance de tout le peuple, du plus grant jusque au moindre» . In chiusura liquidò seccamente le aspettative di vantaggi strategici e finanziari nutrite alla corte di Francia riguardo a Savona: «J’omect qu’il se peut aysement savoir que le dicte Saonne ne luy [au roi] est d’aucune utilité ou proffit, et se trouvera ce que l’on y a receu du droit de mer n’avoir excedu la despense de sa manutention».
30Si tratta di un’analisi coerente, compatta e fondata su una logica stringente. La lettera, tuttavia, non era sincera. Troppi appelli dello stesso tenore erano rimasti inascoltati, e proprio il Doria sarebbe stato di lì a poco autore della «soubdaine nouveté» da lui stesso evocata. Il passaggio del Doria dalla parte di Carlo V, e con lui della nuova repubblica di Genova – che in breve, brutalmente, risolse il problema savonese – fu per gli Imperiali la fine di un incubo. Con parole e concetti che Gattinara aveva disseminato, alla metà di settembre del 1528 Antonio de Leyva rammentò all’Asburgo che «Génova importa a su servicio lo que sabe, y cada día se prueba, que si fuera para Vuestra Magestad, faltáranle muchos trabajos de los que ha habido »61 ; il 31 gennaio dell’anno successivo, il conte di Belgioioso affermò: «quando questa cità [Genova] ritornasse sotto el dominio francese, seria impossibile che si regesse Milano, essendo per la verità Genova anima di Milano»; in quel caso, «manchariano avisi et modo de avisare [...], mancheria forma al denaro, mancheria ogni forma et subsidio [...], finalmenti mancheriano un mondo de effetti tutti importanti et necessarii in la guerra »62.
31La qualità strategica di una leadership, come sostiene Colin S. Gray, si giudica anche, e forse soprattutto, dall’abilità «to make small rather than large mistakes», e in particolare di evitare «a literally fatal error», per il quale non è possibile «readily find adequate compensation »63. Sull’affaire Doria-Genova, Francesco I aveva compiuto un errore di quest’ultimo tipo. Per oltre un secolo, Carlo V e i suoi successori avrebbero tratto dalla città ligure tutte le «comodidades» che Lope de Soria aveva annunciato – libero transito, informazioni, denaro, forze navali – senza che la Francia trovasse il modo di rimediare agli sbagli compiuti nel 1528. Alla corte d’Inghilterra la gravità del passaggio di Andrea Doria al servizio dell’imperatore era stata nettamente percepita. Come riferì l’ambasciatore a Londra Jean du Bellay in una lettera a Montmorency, Enrico VIII e il cardinale Wolsey «s’esbayssent merveilleusement que ne voyez cela ou que n’y remédiez». La defezione del capitano genovese equivaleva a «mectre vostre cas en ruyne» e, affermò Wosley, sarebbe stato meglio per Francesco I rinunciare a «six Saonnes qu’en temps si néccessaire le perdre». Pur di tenerlo, il re avrebbe dovuto «accorder toutes choses audict Doria, voire impossibles», ma in questo era ormai stato anticipato dal suo rivale. Le parole del cardinale inglese riassumono efficacemente l’esito disastroso di una cattiva strategia64.
32 Non è possibile in questa sede affrontare l’evoluzione successiva della strategia francese. In particolare, la metà degli anni Trenta, con l’invasione del Piemonte e l’alleanza con Solimano il Magnifico, fu un momento di svolta. Tra i tanti problemi posti da tali sviluppi, c’è quello degli effetti della collaborazione militare franco-ottomana sulla politica navale della monarchia. Nel 1526-1528, l’alleanza con Venezia e i servigi di Andrea Doria avevano conferito a Francesco I un vantaggio potenzialmente decisivo sullo scacchiere marittimo. L’imperatore, privo di una flotta da guerra permanente, aveva sopperito con espedienti emergenziali alla vitale necessità di mettere in comunicazione la Spagna e l’Italia. Con il passaggio di Andrea Doria al servizio di Carlo V, la Francia perse la supremazia navale nel Mediterraneo Occidentale. Iniziò allora il trasferimento di tecnologia, capacità gestionali e personale specializzato dalla Liguria ai domini degli Asburgo che diede il via alla gloriosa storia della Armada spagnola65. Di cosa avrebbe avuto bisogno la Francia in questa nuova situazione? Della disponibilità solo teorica della grande flotta ottomana, che sarebbe stata a Ovest dello stretto di Sicilia per i pochi mesi della stagione estiva, e avrebbe comunque perseguito obiettivi decisi a Istanbul? Oppure, già allora, di una piccola flotta, come quella pensata e voluta da Richelieu un secolo dopo, permanente e operativa dodici mesi l’anno e in grado, sfruttando le caratteristiche geo-climatiche del golfo del Leone, di colpire le linee di collegamento tra le penisole iberica e italiana? Anticipando sinteticamente un’ipotesi interpretativa che svilupperemo altrove, riteniamo che la scelta di Francesco I di allearsi con la superpotenza navale del Mediterraneo, l’Impero ottomano, fu una scorciatoia che condusse ad un vicolo cieco, creando l’illusione di poter evitare i costi della creazione di un dispositivo navale stabile ed efficiente nelle acque della Provenza.
33Tornando in conclusione allo specifico argomento di questo saggio, si può affermare che il bilancio generale della strategia francese nei confronti di Genova nel terzo decennio del Cinquecento fu chiaramente negativo. Le carenze più vistose non si registrano sul piano della strategia militare, che pure non va esente da critiche – non a torto, Charles Oman ha definito la decisione di Francesco I, alla fine del 1524, di mandare verso il regno Napoli un significativo contingente dell’esercito di Lombardia «the maddest of all the strategical errors for which he and his two predecessors had been responsible »66 ; e suscita dubbi anche la mossa dello stesso tipo compiuta nel 1527 con l’invio nel Meridione del grosso dell’esercito agli ordini di Lautrec. Ma, per quanto possa apparire paradossale, le incertezze intrinseche all’uso dello strumento militare fanno sì che le operazioni belliche, da sole, non costituiscano un banco di prova attendibile per le strategie. Le carenze più gravi furono di tipo politico.
34Come afferma Williamson Murray, caratteristica fondamentale delle strategie di successo è la flessibilità e la capacità di adattamento al flusso imprevedibile degli eventi67. Volendo esprimere il concetto in termini cinquecenteschi, si può ricorrere al capitolo 25° del Principe68, dove, trattando del ruolo della Fortuna nelle cose umane, Machiavelli spiega il «felicitare» o «ruinare» dei principi non in base al loro agire «con impeto» o «con rispetto» secondo la «natura» propria di ognuno, ma dalla consonanza di tale natura e agire «con le qualità de’ tempi». Il segretario fiorentino si dichiara pessimista sulla possibilità di trovare «uomo sì prudente che si sappi accomodare» al mutare delle circostanze, «perché non si può deviare da quello a che la natura l’inclina»; ma, con la frase ipotetica «se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna »69, in realtà egli indica, in positivo, una delle componenti fondamentali della sua idea di «prudenza» come suprema virtù razionale dell’uomo politico70. Nel capitolo 3° del Principe, dedicato in gran parte agli errori di Luigi XII, egli attribuisce «virtù e prudenza» ai Romani, capaci di vedere «discosto gli inconvenienti», mentre entrambe erano fatalmente mancate al re francese, che aveva fatto «el contrario di quelle cose che si debbono fare per tenere uno stato disforme» come il ducato di Milano71.
35Francesco I non fece meglio del suo predecessore quanto a lungimiranza e duttilità. Le vicende suo regno confermarono che i Francesi – affermò Richelieu, riecheggiando ad un secolo di distanza le osservazioni di Machiavelli – erano stati «assez heureux à conquérir en Italie, mais si malheureux à conserver que les lauriers qu’on a cueillis ont promptement été changés en cyprès »72. Se comparata a quella spagnola, la strategia francese appare poco flessibile e carente soprattutto sul versante politico. Azzardando una spiegazione generale dei fraintendimenti e delle scelte controproducenti effettuate nel terzo decennio del Cinquecento da Francesco I e dai suoi più stretti collaboratori, si può ipotizzare che la visione del problema/opportunità rappresentato da Genova fu pesantemente condizionato dal presupposto del diritto dinastico che il Cristianissimo rivendicava su di essa. Un apparente vantaggio, forse il più rilevante nella logica politica del tempo, poteva trasformarsi in un fattore di debolezza se restringeva troppo le opzioni per il perseguimento di interessi vitali a lungo termine. Analogamente a quanto sarebbe avvenuto per la monarchia spagnola dopo la rivolta nei Paesi Bassi, il diritto dinastico portò i sovrani francesi a pensare esclusivamente in termini di esercizio o rivendicazione del dominio diretto, limitando la capacità di una riflessione a tutto campo sui modi migliori per garantire i loro interessi strategici in rapporto al territorio ligure.
36Questa è una sorta di «net assessment »73 della strategia di Francesco I rispetto a quella di Carlo V, che non intende però eludere il problema della complessità e delle fortissime implicazioni politiche del diritto dinastico nella cultura della prima età moderna; e soprattutto la sua connessione con la ‘reputazione’ e l’onore74, valori supremi e strumenti indispensabili nella competizione geopolitica. In quest’ottica, le responsabilità del re Cristianissimo e dei suoi consiglieri divengono più sfumate. È chiaro che un imperatore pronto a infeudare lo stato di Milano dopo averlo conquistato e a proteggere la libertà della repubblica di Genova (che tra l’altro godeva della status di «civitas imperialis») sarebbe stato giusto, magnanimo e, come subito vedremo, saggio; un sovrano francese poteva essere indotto a rinunciare ai suoi diritti su entrambi solo con le armi, e la sconfitta ledeva certo il suo prestigio, ma non la legittimità di quei diritti e il suo obbligo di rivendicarli. Fu anche il patrimonio ideale e il retaggio giuridico connesso al titolo di Sacro Romano Imperatore – per il quale Francesco I aveva gareggiato senza successo – a conferire flessibilità strategica al progetto egemonico di Carlo V; una flessibilità che l’ideologia regia non consentiva75.
37Ciò detto, una ‘valutazione netta’ della strategia francese in Italia nella prima metà del Cinquecento è quella, fortemente critica, proposta da Richelieu, intenzionato a far tesoro degli errori del passato in prospettiva futura. Era occorso molto tempo, egli afferma, perché, «devenus sages à nos despens», i Francesi capissero che «le vray secret des affaires d’Italie», in funzione antiasburgica, non era conquistare, annettere e dominare, ma «dépouiller le roy d’Espagne de ce qu’il y tient, pour en revestir les princes et potentats d’Italie »76. Questa è forse la più brillante intuizione strategica del Cardinale: la messa a fuoco del fatto che la lotta per la supremazia in Italia non era un gioco a somma zero tra due soli competitori77, Francia e Spagna, ma implicava interazioni complesse in un ambiente instabile e sovraffollato di contendenti. Il che condannava l’unilateralismo alla sconfitta78, e richiedeva l’adozione di strategie flessibili, empatiche, con una forte componente politica, sacrificando, se necessario, non solo le pretese dinastiche, ma anche gli apparenti vantaggi del dominio. Gattinara l’aveva capito un secolo prima, quando nel 1523, proclamandosi l’unico nell’entourage dell’imperatore a «scavoir les choses d’Italie», si atteggiava a Cassandra e andava contro il parere degli altri consiglieri riguardo al nodo fondamentale degli affari delle penisola: il futuro dello stato di Milano. Per quanto Milano fosse centrale nella sua visione strategica, il gran cancelliere, con evidente gusto del paradosso, sostenne che Carlo V doveva cederla per non perderla: «Je dis doncques, Sire, qu’il vous est necessaire de bailler la investiture de Milan à ce Duc Francisque [Sforza] ou estre en danger de perdre l’Estat de Milan, ensemble tout ce qu’avez en Italie» . «Tenir Milan [...] en vos mains», aggiunse, equivaleva a gettare i potentati della penisola nelle braccia della Francia, e avviarsi al disastro; darla allo Sforza, consentiva di assicurarsi «Milan et toute Italie» . L’imperatore doveva seguire «la voie par laquelle les Romains et autres eurent la monarchie du monde», e cioè «gaigner les cueurs des hommes et faire par eulx que Rois, Ducs, Princes et Potentatz viennent à vostre devocion et obéissance et vous recongnoissent pour supérieur »79. Questo modo di intendere lo spazio politico italiano fu la pietra angolare su cui venne costruita l’egemonia spagnola sulla penisola.
38Per quanto riguarda Genova, la Spagna non aveva diritti dinastici da vantare, ma ebbe a disposizione la concezione imperiale gattinariana, che era intrinsecamente flessibile, non una camicia di forza ideologica. Essa passò da Carlo V a Filippo II. Entrambi furono in grado di pensare, perseguire e sperimentare, dal punto di vista diplomatico e istituzionale, un rapporto simbiotico con la città ligure che consapevolmente prescindeva da ipotesi di conquista e dominio, ed ebbero partita vinta. Anche questa divenne una dottrina strategica consolidata negli ambienti spagnoli. Nonostante che la politica di potenza di Filippo II nel Mediterraneo e in Europa dipendesse da Genova dal punto di vista finanziario e militare-logistico, il duca d’Alba affermò, nel delicato tornante del 1575, «si Génova fuesse de Francia sería lo peor», ma, aggiunse, «si [fuesse] de vuestra magestad no lo ternía por lo mejor» . La soluzione più conveniente per tutti, la più efficiente, e la meno costosa perché evitava l’uso dello strumento militare, era che «fuesse república estando en el estado passado »80. Genova fu una repubblica per niente docile ai voleri della superpotenza iberica, ma fu ad essa legata da una salda «cadena de oro», finanziaria e politica, che i Valois non erano stati capaci di forgiare.
Notes de bas de page
1 G. Parker, The Grand Strategy of Philip II, New Haven-Londra, 1998. Alcuni aspetti delle tesi di Parker sono discussi in A. Pacini, «Desde Rosas a Gaeta» . La costruzione della rotta spagnola nel Mediterraneo occidentale nel secolo XVI, Milano, 2013, p. 13-34.
2 Si pensi ai lavori di Federico Chabod sullo stato di Milano, e in particolare F. Chabod, Milano o i Paesi Bassi? Le discussioni in Spagna sulla «alternativa» del 1544, in Id., Carlo V e il suo impero, Torino, 1985, p. 185-224.
3 D. Potter, Renaissance France at War: Armies, Culture and Society c. 1480- 1560, Woodbridge, 2008, p. 15-41.
4 F. Lot, Recherches sur les effectifs des armées françaises des Guerres d’Italie aux Guerres de Religion, 1494–1562, Parigi, 1962, p. 53, 57, 58.
5 A partire da G. Parker, The Making of Strategy in Habsburg Spain: Philip II’s “Bid for Mastery, ” 1556-1598, in W. Murray, M. Knox, A. Bernstein (a cura di), The Making of Strategy: Rulers, States, and War, New York, 1994, p. 115-150.
6 Cfr., ad esempio, per Carlo V, A. Espinosa, The Grand Strategy of Charles V (1500-1558): Castile, War, and Dynastic Priority in the Mediterranean, in Journal of Early Modern History, 9, 2005, p. 239-283, ma soprattutto il primo capitolo di J.D. Tracy, The Grand Strategy of Charles V, in Id., Emperor Charles V, Impresario of War. Campaign Strategy, International Finance, and Domestic Politics, Cambridge, 2002, p. 20-38; per l’età di Filippo III e Filippo IV, P. C. Allen, Philip III and the Pax Hispanica, 1598-1621: The Failure of Grand Strategy, New Haven-Londra, 2000; J.H. Elliott, Managing Decline: Olivares and the Grand Strategy of Imperial Spain, in P. Kennedy (a cura di), Grand Strategies in War and Peace, New Haven-Londra, 1991, p. 87-104. Complessivamente sugli Asburgo di Spagna, cfr. G. Parker, Incest, Blind Faith, and Conquest: The Spanish Habsburgs and their Enemies, 1516-1713, in J. Lacey (a cura di), Great Strategic Rivalries: From the Classical World to the Cold War, Oxford, 2016, p. 209-226.
7 G. Ágoston, Information, Ideology, and the Limits of Imperial Policy: Ottoman Grand Strategy in the Context of Ottoman-Habsburg Rivalry, in V. Aksan, D. Goffman (a cura di), The Early Modern Ottomans: Remapping the Empire, New York, 2007, p. 75-103.
8 La situazione è diversa, ovviamente, per la fase successiva all’ascesa al trono dei Borbone e soprattutto all’entrata in scena di Richelieu. Sulla controversa questione del «grand dessein» da Enrico IV a Richelieu cfr. J. Wollenberg, Richelieu et le système européen de sécurité collective. La bibliothèque du Cardinal comme centre intellectuel d’une nouvelle politique, in Dix-septième siècle, 210, 2001, p. 99-112; F. Hildesheimer, Richelieu cardinal-ministre, in Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, 150, 2006, p. 365-383; R.C.H. Lesaffer, Defensive Warfare, Prevention and Hegemony: The Justifications for the Franco-Spanish War of 1635, parti 1 e 2, in Journal of the History of International Law, 8, 2006, p. 91-123, 149-171; per l’età di Luigi XIV cfr. le sintesi di J.A. Lynn II, A quest for glory: The formation of strategy under Louis XIV, 1661- 1715, in W. Murray, M. Knox, A. Bernstein (a cura di), The Making of Strategy... cit., p. 178-204; J.A. Lynn II, The grand strategy of the grand siècle: Learning from the wars of Louis XIV, in W. Murray, R.H. Sinnreich, J. Lacey (a cura di), The shaping of grand strategy. Policy, diplomacy, and war, Cambridge, 2011, p. 34-62.
9 W. Murray, R.H. Sinnreich (a cura di), Successful Strategies. Triumphing in War and Peace from Antiquity to the Present, Cambridge, 2014, p. 2.
10 D. Potter, Renaissance France at War... cit., p. 2, 3, 26.
11 M. van Creveld, Command in War, Ithaca, 1985, p. 18-19.
12 L. Freedman, Strategy. A History, New York, 2013, p. 69-70.
13 M. van Creveld, Command in War... cit., p. 18.
14 J.D. Tracy, Emperor Charles V... cit., p. 20-21. Tracy parte dalla definizione di strategia data da Edward Mead Earle nella sua Introduction a Id. (a cura di), The Makers of Modern Strategy. Military Thought from Machiavelli to Hitler, Princeton, 1943, p. VIII.
15 Parker, The Grand Strategy... cit., p. 1; E.L. Wheeler, Methodological Limits and the Mirage of Roman Strategy: Part 1, in Journal of Military History, 57, 1993, p. 10.
16 Parker, The Grand Strategy... cit., p. 2; E.N. Luttwak, Strategy, in R. Cowley, G. Parker (a cura di), The Reader’s Companion to Military History, Boston, 1996, p. 448; cfr. E.N. Luttwak, The Grand Strategy of the Byzantine Empire, Cambridge MA, 2009, p. 414-415.
17 «Grand strategy is a matter involving great states and great states alone. No small states and few medium-size states possess the possibility of crafting a grand strategy», W. Murray, Thoughts on grand strategy, in W. Murray, R.H. Sinnreich, J. Lacey (a cura di), The shaping of grand strategy... cit., p. 1, cfr. p. 8.
18 «There is, one must admit, considerable confusion of grand strategy with policy, military strategy, and strategies to achieve this or that specific goal. Grand strategy is none of these, but to one extent or another, it consists of all of them», Ivi, p. 2-3.
19 «The crux of grand strategy lies in policy, that is, in the capacity of the nation’s leaders to bring together all of the elements, both military and nonmilitary, for the preservation and enhancement of the nation’s long term (that is, in wartime and peacetime) best interests», P. Kennedy, Grand Strategy in War and Peace: Toward a Broader Definition, in Id. (a cura di), Grand Strategies in War and Peace... cit., p. 5-6.
20 «Whether policy shaped strategy or strategic imperatives drove policy was irrelevant. Miscalculations in both led to defeat, and any combination of politico-strategic error had disastrous results». In campo strategico, infatti, «Murphy’s law works at every level», W. Murray, Introduction, in W. Murray, R.H. Sinnreich (a cura di), Successful Strategies... cit., p. 1, 9.
21 L. Freedman, Strategy... cit., p. 237-244. Cfr., inoltre, Id., The Master Strategist is Still a Myth, in War on the Rocks, 14 October 2014, http://warontherocks.com/2014/10/the-master-strategist-is-still-a-myth/, in risposta a D. Steed, Finding Strategic Man, in War on the Rocks, 7 October 2014, http://warontherocks.com/2014/10/finding-strategic-man/.
22 Seguiamo in questo J.D. Tracy, Emperor Charles V... cit., p. 39. Wim Blockmans esita ad attribuire a Carlo V una visione strategica «as the distance grew between the emperor and his chancellor since 1525», Charles’s Ideals, Pragmatism and Strategy. An Impossible Mission?, in J. Martínez Millán (a cura di) Carlos V y la quiebra del humanismo político en Europa (1530-1558), I, Madrid, 2001, p. 179. Su Gattinara e per la ricca bibliografia a lui relativa cfr. J.C. D’Amico, Mercurino Arborio de Gattinara et le mythe d’un empire universel au service de Charles Quint, in J.-L. Fournel, F. Crémoux (a cura di), Idées d’empire en Italie et en Espagne (XIVe-XVIIe siècle), Mont-Saint-Aignan, 2010, p. 71-102; Id., Gattinara et la «monarchie impériale» de Charles Quint. Entre millénarisme, translatio imperii et droits du Saint-Empire, in Astérion [en ligne], 10 (2012); R.A. Boone, Mercurino di Gattinara and the Creation of the Spanish Empire, Londra, 2014.
23 «L’Italie est le principal fondement de tout le fruict que pourrez cueillir de cest empire, pour jcelluy conserver et accroistre, pour aquerir reputacion, et pour vous mectre au dessus de touz voz afferes et dehors de toute necessité [...] tellement que quicunque conseillera que deussies laisser la jtalie pour aller aultre part que ce soit vous conseillera vostre destruction avec honte et dommaige», lettera-memoriale del 1521, in C. Bornate, Historia vite et gestorum per dominum magnum cancellarium, con note, aggiunte e documenti, in Miscellanea di Storia Italiana, 48, s. III, t. 17, 1915, p. 429.
24 In questo memoriale, il settimo punto ( «Assurément d’Italie») ha come primo articolo la «consideracion [...] que les Duchez Milan et Gennes sont les clefs et la porte pour pouvoir garder et dominer toute l’Italie, et l’Italie establie et bien reduicte en vostre subjection est le vrai siege et sceptre pour dominer tout le monde»; se le due città fossero cadute in mano francese, «toute l’Italie seroit en hazard de tumber es mains desdicts François, ensemble le Roiaulme de Naples», E. Gossart, Notes pour servir à l’histoire du règne de Charles Quint, in Mémoires couronnées et autres mémoires publiés par l’Académie royale des sciences, des lettres et de beaux-arts de Belgique, 55, 1898, p. 112.
25 Cfr. M. Rizzo, Porte, chiavi e bastioni. Milano, la geopolitica italiana e la strategia asburgica nella seconda metà del XVI secolo, in R. Cancila (a cura di), Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), II, Palermo, 2006, p. 467-511; A. Pacini, «Desde Rosas a Gaeta» ... cit., p. 57-91.
26 Testament politique de Richelieu, ed. F. Hildesheimer, Parigi 1995, p. 321-332. Per il precedente del Règlement de la mer, del 1625, cfr. G. Ferretti, Conquérir et conserver. Gênes et Turin dans la politique de la France au XVIIe siècle, in G. Assereto, C. Bitossi, P. Merlin (a cura di), Genova e Torino. Quattro secoli di incontri e scontri. Nel bicentenario dell’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, Genova, 2015, p. 143-161.
27 Sul profilarsi dell’idea dell’accerchiamento nel XVI secolo cfr. D. Potter, Renaissance France at War... cit., p. 2-3, 24; G. Parker, The Grand Strategy of Philip II... cit., p. 6-7.
28 Sul parallelismo cfr. S. Externbrink, ‘Le cœur du monde’: Frankreich und die norditalienischen Staaten (Mantua, Parma, Savoyen) im Zeitalter Richelieus, 1624- 1635, Münster, 1999, p. 62; Id., ‘Le cœur du monde’ et la ‘Liberté d’Italie’. Aspects de la politique italienne de Richelieu, 1624-1642, in Revue d’histoire diplomatique, 114, 2000, p. 181-208.
29 Due porte, quindi, una terrestre e una marittima nel piano di Richelieu; il ruolo che avevano, rispettivamente, Milano e Genova nella visione di Gattinara. Cfr. S. Externbrink, L’Espagne, le duc de Savoie et les ‘portes’. La politique italienne de Richelieu et Louis XIII, in G. Ferretti (a cura di), De Paris à Turin. Christine de France duchesse de Savoie, Parigi, 2014, p. 21-40. Sulla politica navale di Richelieu cfr. A. James, Navy and Government in Early Modern France, Woodbridge, 2004, e il classico R.C. Anderson, The Thirty Year’s War in the Mediterranean, in Mariner’s Mirror, 55, 1969, p. 435-51, e 56, 1970, p. 41-57.
30 Cfr. A. Hugon, Au service du Roi Catholique. «Honorables ambassadeurs» et «Divins espions» . Représentation diplomatique et service secret dans les relations hispano-françaises de 1598 à 1635, Madrid, 2004, p. 100-111.
31 Su cui disponiamo ora dell’ottimo contributo di Fabien Lévy, La Monarchie et la Commune: les relations entre Gênes et la France, 1396-1512, Roma, 2014 (Collection de l’École française de Rome, 491).
32 N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ed. S. Bertelli, Milano, 1977, p. 16-25.
33 Cfr. E. Fasano Guarini, Machiavelli and the Crisis of the Italian Republics, in G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli (a cura di), Machiavelli and Republicanism, Cambridge, 1990, p. 17-40, e le voci di R. Descendre, Francia, in G. Sasso e G. Inglese (a cura di), Enciclopedia Machiavelliana, Roma, 2014, I, p. 580-583; e di J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, Carlo VIII, Ivi, I, p. 283-285; Luigi XII, Ivi, II, p. 105-106; Francesco I, Ivi, I, p. 577-579.
34 Traduciamo qui «Él que es señor de Milán lo es de Génova», frase di Andrea Doria riferita dall’ambasciatore spagnolo Figueroa a Carlo V in una lettera del 29 gennaio 1549, cfr. A Pacini, «Desde Rosas a Gaeta» ... cit., p. 84.
35 N. Machiavelli, Istorie Fiorentine, ed. F. Gaeta, Milano, 1962, p. 335. Su Genova «punto nevralgico del dominio milanese» in età sforzesca cfr. R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Milano, 1994, p. 290, e le precisazioni di M.N. Covini, L’esercito del duca. Organizzazione militare e istituzioni al tempo degli Sforza (1450-1480), Roma, 1998, p. 206-209.
36 G. Canestrini, A. Desjardins (ed.), Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, II, Parigi, 1861, p. 147.
37 Cfr. D. Potter, Renaissance France at War... cit., p. 26.
38 Cfr. A. Aubert, La crisi degli antichi stati italiani, I, 1492-1521, Firenze, 2003, p. 164-165.
39 Journal de Jean Barrillon, secrétaire du chancelier Duprat, 1515-1521, II, ed. P. de Vaissière, Parigi, 1899, p. 155.
40 A quasi trent’anni di distanza, Ferrante Gonzaga scrisse per l’imperatore un lungo memoriale per spiegare che «tanto è di maggior forza estimata e più potente la corona di Francia e più difficile ad offenderla, quanto è più unita che quella di Spagna», e per suggerire i necessari rimedi. Le parti invertite ci fanno apparire prudente don Ferrante (che non sottostima l’avversario), ma il parametro di giudizio è lo stesso usato da Francesco I: unità-divisione, la prima come dato positivo (che consente di mobilitare e spostare forze per linee interne), la seconda, negativo (per le difficoltà di comunicazione e coordinamento). In realtà, Gonzaga, con i suoi consigli, stava già superando quel parametro. Egli stava compiendo precocemente il salto di qualità nella riflessione teorica definito da Romain Descendre «politisation de la géographie», culminato nella Ragion di stato di Giovanni Botero. Per entrambi, infatti, la supremazia della monarchia spagnola in campo navale costituiva un efficace antidoto alla dispersione territoriale. Cfr. A Pacini, «Desde Rosas a Gaeta» ... cit., p. 38, 43-57; R. Descendre, L’État du monde, Giovanni Botero entre raison d’État et géopolitique, Ginevra, 2009, p. 17.
41 Siamo anzi propensi a dar credito a Gattinara, che in un memoriale del 1523 avvertiva Carlo V, a proposito di Milano e Genova da poco conquistate: «et pour ce que les François vos ennemis le congnoissent très bien et qu’ilz tiennent ce poinct en plus d’extime que la deffence de leur propre Roiaulme, comme ilz ont bien monstré à présent par effect, fault considérer que toutes et quantesfois qu’ilz cognoistront l’opportunité d’y povoir retourner, ilz le feront», E. Gossart, Notes... cit., p. 112.
42 Cfr. C. Taviani, Superba discordia. Guerra, rivolta e pacificazione nella Genova di primo Cinquecento, Roma, 2008.
43 G. Canestrini, A. Desjardins (ed.), Négociations... cit., II, p. 147.
44 C. de Seyssel, Les Louenges du Roy Luoys XIIe de ce nom (1508), ed. P. Eichel-Lojkine, L. Vissière, Ginevra, 2009, p. 218.
45 G. de Marillac, Vie du connétable Charles de Bourbon, in Choix de chroniques et mémoires sur l’histoire de France, ed. J.A.C. Bouchon, Parigi, 1838, p. 155.
46 M. Sanuto, I diarii, ed. F. Stefani, G. Berchet, N. Barozzi, XLIII, Venezia, 1895, col. 14, 15, 182.
47 Cfr. M. Mallett, C. Shaw, The Italian Wars, 1494-1559. War, State and Society in Early Modern Europe, Harlow, 2012, p. 156.
48 «Dio volesse la spexa fatta a Cremona fusse stà fata a Zenoa, che saria stà molto più a proposito di le cose nostre», M. Sanuto, I diarii... cit., XLIII, col. 15.
49 N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, III, ed. Sergio Bertelli, Milano, 1964, p. 1591. Di fronte alle pressanti richieste che venivano dal fronte ligure, Guicciardini ribadì, impotente, che «la cosa di Genova importa più che non si potria dire [...]; chi voltassi Genova, haria vinto la migliore parte di questa impresa», Carteggi di Francesco Guicciardini, 9, ed. P.G. Ricci, Roma, 1959, p. 234.
50 M. Mallett, C. Shaw, The Italian Wars... cit., p. 165.
51 Cfr. A. Pacini, «Desde Rosas a Gaeta» ... cit., p. 75.
52 V.-L. Bourrilly, Jacques Colin, abbé de Saint-Ambroise (14.?-1547). Contribution à l’histoire de l’humanisme sous le règne de François Ier, Parigi, 1905.
53 Ivi, p. 16.
54 N. Machiavelli, Istorie Fiorentine... cit., p. 561.
55 G. Canestrini, A. Desjardins (ed.), Négociations... cit., II, p. 221, 245.
56 N. Machiavelli, Legazioni e commissarie... cit., I, p. 126.
57 N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi... cit., p. 21.
58 V.-L. Bourrilly, Jacques Colin... cit., p. 16.
59 Lo sottolinea Williamson Murray nel suo tentativo di mettere a punto una definizione del concetto sfuggente di ‘grande strategia’: essa è l’esatto contrario della tendenza a privilegiare «superficial, immediate, short-term gains over the long-term interests of the state», Thoughts on grand strategy... cit., p. 25.
60 Parigi, Bibliothèque Nationale, Fonds français 3005, f. 117.
61 P. de Sandoval, Historia de la vida y hechos del Emperador Carlos V, ed. C. Seco Serrano, II, Madrid, 1955, p. 323.
62 Cfr. A Pacini, «Desde Rosas a Gaeta» ... cit., p. 81.
63 Colin S. Gray, Harry S. Truman and the forming of American grand strategy in the Cold War, 1945-1953, in W. Murray, R.H. Sinnreich, J. Lacey (a cura di), The shaping of grand strategy... cit., p. 211.
64 Lettera del 21 agosto 1528, Ambassades en Angleterre de Jean Du Bellay: La première ambassade (Septembre 1527-Février 1529), ed. V.-L. Bourrilly, P. De Vaissière, Parigi, 1905, p. 382-384. Sulla decisione del Consiglio e del re di rigettare le richieste di Andrea Doria cfr. Mémoires de Martin e Guillaume du Bellay, ed. V.-L. Bourrilly e F. Vindry, II, Parigi, 1910, p. 78-82. Riguardo alla defezione del Doria, che causò il fallimento dell’assedio di Napoli da parte di Lautrec, Blaise de Monluc affermò: «Dieu pardoint à qui en fust cause», Commentaires de Blaise de Monluc, Maréchal de France, ed. P. Courteault, I, Parigi, 1911, p. 83.
65 Cfr. A. Pacini, «Como lo hacen los particulares»: l’alternativa asiento-administración nella gestione della flotta spagnola nel Mediterraneo nel XVI secolo, in M. Rizzo (a cura di), À la guerre comme à la guerre. Attori, risorse e dinamiche della competizione strategica in Europa e nel Mediterraneo fra XV e XVIII secolo, num. monografico di Storia economica, 19-1, 2016, p. 103-134.
66 C. Oman, A History of the Art of War in the Sixteenth Century, New York, 1937, p. 191, cit. in R.J. Knecht, Francis I, Cambridge, 1982, p. 164. Cfr. M. Mallett, C. Shaw, The Italian Wars... cit., p. 149-150.
67 «Grand strategy [...] demands a recognition of and ability to react to the ever-shifting environments of war and peace [...] is flexible, realistic, and above all connects means to ends», W. Murray, Thoughts on grand strategy... cit., p. 3-4; «grand strategy exists in a world of flux. Constant change and adaptation must be its companions if it is to succeed», Ivi p. 11.
68 N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi... cit., p. 98-101.
69 Così nei Ghiribizzi del 1506: «Et veramente, chi fussi tanto savio che conoscessi e tempi et l’ordine delle cose et adcomodassisi ad quelle, harebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista», R. Ridolfi, P. Ghiglieri, I Ghiribizzi al Soderini, in La Bibliofilia, 72, 1970, p. 53-74; e cfr. il cap. 9° del libro 3° dei Discorsi, dal titolo «Come conviene variare co’ tempi, volendo sempre avere buona fortuna», N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi... cit., p. 416-18.
70 «The “rationality” of the human beast is prudence; he must know when to adopt which nature», H.C. Mansfield, Machiavelli’s Virtue, Chicago, 1996, p. 38; e cfr. M. Hörnqvist, Machiavelli and Empire, Cambridge, 2004, p. 240-41, 249-51; P. Stacey, Roman Monarchy and the Renaissance Prince, Cambridge, 2007, p. 290-9.
71 Conoscere «discosto», afferma Machiavelli, «non è dato se non a uno prudente» (N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi... cit., p. 21). Da parte sua, Gattinara, a coloro che lo ritenevano Pertinax [...], quod soli sue prudentie inniti videretur, quodque presagium faceret de futuris contingentibus, quorum veritas determinata non esset, replicava che appunto quello era il significato della prudenza: memoria preteritorum, consideratio presentium ex quibus merito resultare poterat previdentia futurorum, C. Bornate, Historia vite... cit., p. 318 (cfr. J.C. d’Amico, Gattinara et la «monarchie impériale»... cit.; L. Ragazzini, Pragmatismo politico e profezia: il tema della prudentia nell’Autobiografia di Mercurino Arborio di Gattinara (1529), in Dimensioni e problemi della ricerca storica, 1, 2009, p. 173-193; R.A. Boone, Mercurino di Gattinara... cit., p. 35-36). Proprio nella mancanza di ‘prudenza’, oltre che di forza, Richelieu individuò la causa degli insuccessi francesi in Italia: «Nous n’aions pas esté assés prudens et assés forts pour maintenir ce que nous avions conquis», Memoriale del maggio 1625, in Lettres, instructions diplomatiques et papiers d’état du Cardinal de Richelieu, II, ed. M. Avenel, Parigi, 1856, p. 81.
72 Ivi.
73 Cfr. W. Murray, A.R. Millett, Net Assessment on the Eve of World War II, in W. Murray, A.R. Millett (a cura di), Calculations, Net Assessment and the Coming of World War II, New York, 1992, p. 1-18.
74 J.H. Elliott, A Question of Reputation? Spanish Foreign Policy in the Seventeenth Century, in The Journal of Modern History, 55, 1983, p. 475-83; Id. Managing Decline... cit.
75 L’ «Accidental Empire», come G. Parker definisce la fase carolina dell’ascesa della potenza spagnola – ‘accidentale’ in quanto prodotto delle fortuite vicende dinastiche connesse al legame tra i Trastámara e gli Asburgo – rappresentò quindi un’opportunità colta, e non un «poisoned chalice» contenente i germi del declino, come lo stesso autore lo etichetta, cfr. G. Parker, Incest, Blind Faith, and Conquest... cit., p. 210-213.
76 Lettres, instructions diplomatiques et papiers d’état... cit., II, p. 81.
77 Sulla ‘teoria dei giochi’ nella riflessione strategica cfr. L. Freedman, Strategy... cit., p. 151-155, 160-167.
78 «The blindly arrogant unilateralism» fu, secondo John Lynn, la cifra della politica estera di Luigi XIV, The grand strategy of the grand siècle... cit., p. 49-54.
79 E. Gossart, Notes... cit., p. 115-118; cfr. L. Gerbier, Le machiavélisme problématique de Valdés dans le Diálogo de las cosas acaecidas en Roma, in Quaderns d’Italià, 16, 2011, p. 115-142.
80 Cfr. A Pacini, «Desde Rosas a Gaeta» ... cit., p. 86.
Auteur
Università di Pisa
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