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3) Alcuni casi di riuso e rilavorazione di sculture medievali durante l’età moderna in Italia centro-meridionale


Texte intégral

1Il reimpiego di un'opera d'arte nel corso dei secoli successivi, in funzioni analoghe a quelle originarie o del tutto inedite, veicola talvolta significati profondi, in quanto specchio di dinamiche politiche, sociali e culturali molto precise. Nel caso in cui il pezzo venga anche rilavorato, a questo orizzonte se ne aggiunge un altro, di segno squisitamente estetico, un dialogo sottile tra diverse realtà, a volte volutamente esibito altre sapientemente mimetizzato, i cui esiti possono essere rivelatori delle intenzioni sottese all’intera operazione. Vengono qui presi in esame due casi, entrambi in Italia meridionale, assunti quali esempi delle possibili motivazioni di recupero e di intervento su opere medievali da parte di artisti di età moderna.

2Il Museo dell’Opera della chiesa di San Lorenzo Maggiore a Napoli conserva la lastra tombale del miles Giovanni Caputo (†1487), esponente di una famiglia proveniente dal contado cittadino che fece fortuna scalando i ranghi dell’amministrazione pubblica a partire dal Duecento e che arrivò nel Quattrocento ad alti livelli della sfera politica. Giovanni fu uno dei governatori del consiglio di reggenza dopo la morte della regina Giovanna II (†1435). La lastra di copertura del suo sepolcro presenta l’immagine del gisant in abiti militari, il cui stile figurativo e i caratteri della moda riflettono gli standard degli anni Trenta-Quaranta del Trecento, più che quelli del tardo Quattrocento. Non siamo tuttavia di fronte alla voluta riproposizione di modelli più antichi (Cautela 1973), ma al reimpiego di un’opera trecentesca da attribuire a Tino di Camaino. L’iscrizione in maiuscola gotica che identifica Giovanni Caputo non presenta segni di abrasione: il campo dell’iscrizione fu, anzi, ricavato quasi a fatica lungo il bordo della lastra. Se ne deduce che, a differenza di altri casi coevi di reimpiego in cui si optò per le lettere capitali, il titulus fu confezionato in armonia con lo stile dei rilievi. Questa scelta rivela una forte consapevolezza del valore storico ed artistico dell’opera, che divenne un manifesto dell’antichità del lignaggio familiare dei Caputo. L’iniziativa si inscrive, non a caso, negli anni del vivace dibattito riguardo i criteri di aggregazione di nuovi membri ai Seggi nobiliari cittadini, e della compilazione delle prime storie genealogiche, come la Nobilitatis Neapolitanae defensio (1480) di Tristano Caracciolo.

3In un orizzonte interpretativo del tutto diverso va invece considerato il caso della statua della Santa Caterina d’Alessandria della Chiesa Madre di Salaparuta (TP). Le disparate ipotesi (ad esempio: Vincenzo Scuderi 1978) sulla cultura figurativa di questa statua rivelano l’imbarazzo della critica di fronte ad un’opera che, se nel corpo ha un impianto decisamente trecentesco, spira invece nel volto una modernità ed una intensità insolite per quei tempi. Sulla scorta dell’intuizione di Gioacchino Di Marzo (1880), che considerò la statua un prodotto del Quattrocento di Bartolomeo Berrettaro, si ipotizza che il pezzo provenga dalla bottega dei fratelli fiorentini Pacio e Giovanni Bertini, attivi a Napoli tra gli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del Trecento, la cui testa sia stata rilavorata nel Quattrocento nell’ambiente della bottega di Domenico Gagini, per esigenze di aggiornamento estetico o di restauro. Come nella arnolfiana Santa Reparata del Museo dell’Opera di Firenze (rilavorata nel Cinquecento), anche in questo caso la testa della statua presenta un modulo leggermente sproporzionato rispetto al corpo poiché, di necessità, l’artista lavorò “a togliere”. Ciò ha causato anche evidenti forzature nei tratti (la piega sotto gli occhi, le forme schiacciate delle tempie) che rendono assai complicato proporre confronti puntuali che consentano di individuare l’autore della rilavorazione. La committenza della statua (la cui storia esterna è, tuttavia, ancora da ricostruire) e la sua rilavorazione potrebbero essere avvenute per iniziativa rispettivamente della famiglia Abate, che ottenne il feudo di Sala nel 1335, e dei Paruta o dei Moncada che lo ereditarono nel Quattrocento, tutte ben radicate a Palermo, ma il cui raggio di azione politica e commerciale andava ben al di là dei confini dell’Isola.

Santa Caterina d’Alessandria. Salaparuta (TP), Chiesa Madre (foto dell’autrice).

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Bibliografia

4Cautela 1973, cat.1, p. 29
Di Marzo 1880-1883, I, nota 1 p. 155
Scuderi 1978, scheda 41, p. 73-74

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