In pane pro caritate
Decime, comuni e poveri nella montagna lombarda (secoli xiv-xvi)
p. 293-310
Texte intégral
1Le decime erano rendite tradizionalmente connesse, fra l’altro, al mantenimento delle chiese e alla cura dei poveri. Basti ricordare, qui, un testo omiletico di area piemontese risalente al 1200 circa, il Sermo de decimis et primiciis. Vi si afferma recisamente «decimas debetis et primicias dare Deo, idest sacerdotibus et pauperibus», stretta connessione ribadita, più volte, in lingua volgare: «doner a sainte Eglise e as preveires et pauperibus1». In una realtà storica che vede i diritti di prelievo disputati fra sedi vescovili, monasteri, ospedali, pievi e cappelle, infeudati ai laici più potenti e da questi riceduti alle chiese o invece venduti ad altri laici, l’efficacia delle affermazioni ideali è tutt’altro che scontata. In questa sede cercherò di seguire come questo nesso si sia riarticolato da quando nel campo di tali rendite cominciarono a intervenire anche le comunità, focalizzando uno specifico contesto: l’ampio settore alpino e prealpino della Lombardia compreso nella diocesi di Como. Le istituzioni territoriali, infatti, assicurarono elargizioni sovvenzionate in parte con i frutti delle decime, ricostruendo dal basso una nuova connessione fra decime e povertà. La più ricca documentazione contabile tardo-medievale e proto-moderna permetterà, per il caso di Bormio, un maggiore approfondimento analitico e una misura quantitativa degli ingenti circuiti di ridistribuzione alimentati dalle comunità grazie a questo tipo di risorse, per intervenire tanto nelle situazioni di particolare fragilità individuale e familiare quanto per l’integrazione rituale della collettività mediante le grandi cerimonie di condivisione del cibo. Dai testamenti alla contabilità, infatti, emergono pratiche e principi appartenenti alla cultura dell’elemosina di una fase storica specifica — una sensibilità che, pur senza trascurare i bisogni singolari, valorizzava il sollievo portato alla collettività nel suo insieme, specialmente in circostanze di festa — cui le comunità paiono nel xvi secolo sostanzialmente fedeli, nonostante le ormai crescenti pressioni specialmente delle autorità ecclesiastiche per una delimitazione più rigorosa e restrittiva della condizione di povertà.
Pauperes ac homines communitatis: gli orientamenti della carità fra xiv e xv secolo
2A Grosio, in Valtellina, gli esponenti della famiglia signorile rivelano, dalla seconda metà del xiv secolo, una crescente incertezza identitaria, manifestata anche dal trasferimento di un esponente dal castello al villaggio, e, con una serie di atti approvati da altri consanguinei, mostrano di avvertire il richiamo di un complesso di pratiche e istituzioni coesive che conferiscono alla decima la funzione simbolica di sovvenire la povertà e di rendere propizio il Signore (beneficando la chiesa curata e il comune che distribuiva agli indigenti il pane per la festa del santo patrono). Per primo, nel 1370, Federico Venosta fu Giovanni, castellano di San Faustino di Grosio, nel testamento lasciò al comune un fitto e inoltre tutti i diritti vantati sulla produzione di frumento, segale, miglio, panico e legumi nel territorio di Grosio, affinché «de blado quo exierit de ipsa decima ipsum commune et homines debent facere in pane pauperibus Christi, pro caritate seu elemoxina», da distribuire nella festa di San Giorgio, a suffragio della sua anima e di quella dei suoi avi. Nel 1399 la madre di Federico, Petra Interortoli di Montagna, anche lei residente nel castello, come molte altre donne, e forse anche perché non originaria del luogo, privilegiò la chiesa rispetto al comune, ma in ogni caso la chiesa di giuspatronato popolare di San Giorgio di Grosio e non la cappella castrense. Lasciò ai curati tutto il frumento che spettava come decima a lei e alla figlia Giovanna, che prestava il suo consenso, con la clausola che fossero celebrate annualmente otto messe per le anime dei vari esponenti del ramo dei Venosta con cui si era legata in affinità. Nel 1407 Artuico fu Giuliano (dunque il cugino di Federico), «de castro Sancti Faustini de Groxio, qui habitat nunc in villa de Groxio», con il consenso della sorella Margherita, consegnò mediante una donazione la propria porzione di decima sui cereali e sulla prole del bestiame, che doveva essere una quota degli stessi diritti che i parenti avevano già ceduto («quam est pro indivixo cum ipso communi»), perché il comune allestisse una distribuzione di pane in occasione della festa del patrono («pro dando pauperibus Christi in loco de Groxio die festo Sancti Georgii2»).
3La cronaca familiare dei nobili Beccaria riporta come Ruffino (attivo nel primo Trecento), «havendo decime ed altre bone facultà nel comun di Sondalo», confinante con Grosio, «lasciò alli poveri de Sondalo una quantità di biada da essergli perpetuamente ogni anno distribuita ed anchora di presente si distribuisse». Nella memoria celebrativa della più potente famiglia valtellinese, dunque, stesa nella seconda metà del Cinquecento, si riteneva degno di menzione questo risalente gesto di generosità3.
4Quando le parentele di tradizione signorile non si orientarono spontaneamente in questa direzione, ve le trascinarono gli homines che pure ne erano, o ne erano stati, dipendenti, attraverso contenziosi e negoziati che testimoniano le difficoltà e il carattere conflittuale del passaggio dei proventi decimali alle nuove destinazioni caritatevoli. Il comune di Cercino, nella bassa Valtellina, che era investito in feudo dei diritti di decima nel suo territorio dalla chiesa di Santa Tecla di Milano, nel 1415 destinò i relativi introiti al mantenimento del beneficiale della chiesa locale, dedicata a San Michele. Sei anni dopo coinvolse nello stesso obiettivo anche i detentori privati della decima di Cercino, tutti di livello sociale elevato: esponenti del lignaggio dei castellani, di un’influente famiglia urbana e di due del Lario. Si rimisero alla mediazione di vari uomini di Trona il comune, Cicco Visdompnollus e Beltramo fratelli Vicedomini di Traona fu dominus Pietro, abitanti nel castello di Domofole, per una quota di 3/7, Giacomo Castelli San Nazaro di Como di ser Princivalle, abitante a Traona, per 2/7, Giovannolo detto Caslorinus di ser Castello Malacrida e Toniolo Franzani di Varenna fu ser Giacomo, abitante a Cercino, per 2/7. Gli arbitri, alla presenza del cappellano di San Michele, di quasi tutti i vicini e delle loro controparti, stabilirono la cessione al comune dei diritti di decima, stimati complessivamente 879 lire e 9 soldi terzioli, una cifra ingente, in cambio di denaro, prodotti agricoli (cereali e vino) e diritti fondiari. I destinatari erano la chiesa, il curato con un chierico, i poveri, aiutati per suffragio dei defunti con quanto sovrabbondasse rispetto alle esigenze di mantenimento dei due religiosi, dunque la collettività presente e passata con particolare riguardo ai suoi membri più deboli. Il comune, che era già il collettore della decima, si poneva ora come suo dispensatore oltre che come garante della sua corretta distribuzione. Il beneficiale era inoltre impegnato in perpetuo a ricordare l’anima di tutti i detentori delle prerogative alienate, dei loro predecessori e successori «in omnibus divinis officiis que cellebrat et cellebrabit» e, ogni mese, a celebrare per loro una messa nella chiesa di Sant’Alessandro di Traona. Il comune, tenuto ad assicurare il rispetto di quest’obbligo, diveniva così anche il custode delle pratiche per la salvezza dei signori locali, dei cittadini e dei nobili di origine lariana residenti in loco4. In effetti, pure grazie a quelle rendite, la chiesa acquisì solidità istituzionale e nel 1433 era definita «nuper errecta in benefitiatam et dotata», all’atto della presentazione in curia episcopale del neo-eletto cappellano5.
5Non diversamente nell’area ticinese una lunga serie di negoziati accompagnò la trasformazione della decima da privilegio dei discendenti di un ramo ormai ridimensionatosi di una potente parentela comasca, i Rusca, a componente di un meccanismo di integrazione sociale (più che di soccorso del bisogno in senso stretto), ancora una volta per il tramite di un atto di pietà testamentaria. Il prelievo, proporzionale al possesso terriero, andò ad alimentare una «distributio» uguale per tutti, che dunque, in questo caso, non separava analiticamente un gruppo di pauperes, ma premiava gli appartenenti alla comunità.
6La famiglia Rusca aveva affermato sulla Val Carvina (la zona del medio e alto corso del Vedeggio e dei suoi affluenti, a sud del Monteceneri) diritti di decima, contestati anche ai superiori poteri ecclesiastici. Alla metà del Trecento quelli su Sigirino, Mezzovico, Isone, Camignolo, Bironico, Rivera, Medeglia erano stati pretesi da dominus Benolo Rusca e altri consorti, in opposizione alla chiesa vescovile milanese, al momento con poco successo, se a Benolo erano state riconosciute prerogative di esazione solo ad Isone e, in modo molto circoscritto, a Camignolo, Bironico, Rivera e Medeglia. Allora i comuni erano già responsabili della raccolta, poiché dovevano conservare i prodotti e consegnarli agli aventi diritto6.
7Zane fu Simone Rusca abitante nel borgo di Bellinzona istituì un legato consistente nella somma di 8 soldi terzioli annui, che i suoi eredi dovevano distribuire «pro singulo foco seu pro singula et qualibet macinata seu familia» dei comuni di Soresina, Rivera, Bironico, Capicogno, Sorencino, Isone, Medeglia, Drossa, Camignolo, Vira, Mezzovico, Sigirino.
8Dopo la morte di Zane il suo erede Andriolo, anch’egli del ramo bellinzonese dell’agnazione, convenne con il comune di Isone la cessione di una quota della decima al posto e per completa soddisfazione della somma dovuta annualmente. Il vescovo di Como nel 1454 approvò la transazione e autorizzò accordi analoghi in tutte le altre località. Nel 1460 Battista fu Andriolo con i suoi fratelli e le comunità di Vira, Mezzovico e Sigirino si rimisero all’arbitrato di Stefano Appiani, canonico della cattedrale. L’influente ecclesiastico sancì il trasferimento perpetuo agli homines della quota di decima nei relativi territori in possesso di Zane, mentre ai Rusca erano dovute 45 lire terziole, a completamento del riscatto dei diritti in questione. Precisò che, se i frutti della decima non fossero bastati a dare a tutti la somma prevista, ad ogni famiglia toccava comunque la sua equa porzione dei ricavi da questa frazione dei diritti di esazione, ribadendo così il fine di ideale parificazione che la pratica rivestiva7.
9In una porzione più meridionale dell’area ticinese, nel Malcantone per la precisione, il comune di Sessa sollecitò una sentenza del tribunale vescovile, che nel 1477 condannò quattro esponenti dei de Bozero di Marchirolo, una famiglia dunque non locale ma di un centro distante una decina di chilometri e situato in un’altra giurisdizione, a versare 13,3 staia di segale e miglio all’anno oltre agli arretrati di 24 anni della quota decimale in loro possesso che era stata destinata, in base ad un legato, ai «pauperes ac homines communitatis», si scriveva di nuovo senza molto distinguere fra i due termini8. Non è semplice stabilire se circa un secolo dopo fossero le stesse prerogative, attribuite ad una cappella ma sempre presidiate dal comune, a suscitare un nuovo contenzioso. Nel 1571 infatti un uomo del posto, Cipriano del Ceruto, che si dichiarava pauper, supplicò il vescovo di annullare l’onere di versare annualmente 6 staia di cereali di mistura (di norma segale e miglio) e 2 congi di vino, e i 43 anni di arretrati, riconosciuti da una sentenza dell’anno precedente. Le sue controparti erano il rettore di Santa Orsola di Sessa, titolare della «decima super qua dicitur esse inventum tale onus ipsius elemosine», e il comune evidentemente intenzionato a salvaguardare l’erogazione9.
10Per ricordare un ultimo passaggio controverso, Andrea de Pongonibus, trasferitosi sul Lario, nel suo testamento lasciò la decima dei luoghi di Beregazzo e Figliaro (nella pianura fra Como e Varese, in diocesi di Milano) all’universitas, con la condizione che quest’ultima facesse celebrare ogni settimana due messe nella chiesa di San Pietro di Beregazzo e in numero maggiore se i proventi lo avessero permessero. Se gli uomini fossero stati negligenti, i diritti sarebbero devoluti ai suoi più prossimi parenti, incaricandosi essi della celebrazione delle funzioni. Il prete Pietro Alberto de Pongonibus, suo erede, intentò causa alla comunità, accusandola appunto di inadempienza. I commissari apostolici, dopo vari gradi di giudizio, diedero ragione al consanguineo che aveva denunciato il mancato rispetto delle volontà di Andrea10.
Causa elemosinarum fiendarum nomine communis pauperibus Christi. La gestione dei proventi delle decime (xvi secolo)
11Come effettivamente i proventi decimali fossero gestiti per promuovere la coesione sociale lo si può verificare approfondendo il caso di Bormio, illuminato da una copiosa documentazione di natura corrente. Si trattava di un unico ed esteso territorio comunale, che copriva nel complesso una superficie di 800 chilometri quadrati: sul capoluogo (situato a 1225 metri slm) e la sua piana convergevano la Valdisotto, la Valfurva e la Valdidentro, costituite a loro volta di più villaggi, cui si aggiungeva la Valle di Livigno. Un paesaggio e un clima dagli spiccati caratteri alpini caratterizzano questa estrema periferia della diocesi di Como.
12Il comune traeva, dalle investiture della chiesa vescovile e del monastero di Sant’Abbondio di Como, nonché dalle sub-concessioni di privati, cospicui diritti di prelievo. Come negli altri casi, non si trattò di una remissione delle decime che ne cancellasse il versamento obbligatorio, ma di un trasferimento del diritto ad esigerle alla comunità. La politica sociale di quest’ultima non mirò, dunque, a liberarne i contadini, al punto da rivolgersi al vescovo, nel 1456 e nel 1459, insieme alle maggiori famiglie locali, per una comune azione contro i recalcitranti11. Nel 1521, evidentemente per uno stato di necessità, si pose anche una sorta di addizione sulle decime: si nominarono cinque persone a «ponere taleam super quibuscumque personis solventibus decimam communi», a loro stima12. Piuttosto, tali esazioni divennero uno dei fulcri dell’identità collettiva, mediante un sistema di uffici e pratiche contabili, con un centro materiale (il granaio comunale), che facesse convergere queste risorse verso il soddisfacimento di esigenze che si consideravano di generale interesse.
13L’aggiudicazione delle decime avveniva mediante gare d’appalto o in alcune occasioni mediante locazione pluriennale. Si trattava di diritti distinti contrada per contrada e per tipologia (scorporando dalle altre le decime sui novali, cioè sui fondi di recente messa a coltura). Le decime dei cereali erano bandite all’inizio di luglio, quelle degli «alodia agnorum» e delle «quartelle agnorum» a marzo. Gli incantatori — privati di estrazione molto diversificata o le contrade, cioè le istituzioni in cui erano organizzati i villaggi minori — dovevano consegnare entro la festa di sant’Andrea (30 novembre) quantità determinate di frumento, orzo e segale. In realtà i pagamenti erano spesso difficoltosi: doveva intervenire il fideiussore, restavano parziali e continuavano fino alla primavera dell’anno successivo, negoziati, ridotti o commutati fra diversi tipi di cereali, convertiti in denaro, magari in parte compensati con eventuali crediti verso il comune.
14Gli introiti delle decime erano gestiti dal canevaro delle biade, in carica per un anno, i cui conti erano sottoposti alla verifica degli examinatores communis. Egli consegnava i grani direttamente ai destinatari indicati dalle autorità comunali o al canevaro maggiore che dispensava i cereali oppure il denaro ricavati dalla vendita. Le spese a suo carico duravano oltre la scadenza del suo mandato, evidentemente perché ancora debitore del comune. Verso la metà del Cinquecento operava anche un collaudator bladorum che valutava la qualità del grano consegnato13.
15Il comune allestì uno spazio designato, perché i fitti delle decime dovevano essere consegnati «in solariis bladorum dicti communis»14; un fienile ai margini dell’abitato era denominato «taulà de li decima» ancora all’inizio del Novecento15.
16Apposite scritture furono destinate alla gestione delle decime: i quaterni securitatum o securtatum, che registravano l’impegno del vincitore della gara d’appalto garantito da una fideiussione, e i quaderni dei conti dei canevari delle biade. Alcune di esse ci sono pervenute. Di particolare interesse sono un fascicolo di rationes degli anni 1527-1529, un Quaternus omnium datorum del 1531-1532, un più organico Quaternus datorum et receptorum redatto nel 1552 da un notarius bladorum e riferito agli introiti delle decime incantate nel 1551. Tali registri rinviano ai verbali di consiglio che, quando conservati, offrono, con qualche minima variante nell’onomastica e nel dettaglio delle disposizioni, un puntuale riscontro ai data del canevaro. Sul piano simbolico, l’elegante Inventarium che Bormio, nel 1553, volle riservare ai bona e iura del comune, per la sicurezza della res publica in futuris temporibus, che registrava il pallatium, l’incarnazione monumentale dell’istituzione, vari immobili, i confinia alpium e così via, dedicava un’ampia sezione alle decime. Esse erano identificate con un titolo rubricato; venivano quindi indicati i cereali dovuti (la quantità fissa in frumento, le proporzioni di segale e orzo), mentre non furono completati la delimitazione territoriale dei diritti e il computo degli introiti; infine si ricordava la base giuridica del loro possesso16.
17Mentre gli alodii agnorum e le quartelle agnorum fruttavano modesti introiti in denaro, le decime dei cereali alimentavano in misura molto significativa l’economia della collettività, sia le vere e proprie elemosine collettive o individuali, sia i servizi offerti, comunque non privi di un’ampia domanda sociale (dalla scuola alla cura d’anime). Inoltre consentivano di non ricorrere alla tassazione in caso di emergenza, risparmiando i patrimoni privati più o meno ricchi e di nuovo, dunque, svolgendo una funzione di ammortizzazione sociale. Tutto ciò, a fronte di un esborso molto contenuto: 19 lire e 4 soldi imperiali dovuti annualmente all’abate di Sant’Abbondio, 70 lire al vescovo di Como (anche se il rinnovo dell’accordo con il presule, nel 1497, era stato propiziato con il versamento ulteriore di 400 lire una tantum)17.
18La scrittura relativa agli anni 1551-1552 è così completa e analitica da costituire il migliore punto di partenza, per poi cercare conferme e riscontri sulla restante documentazione18. Gli introiti erano notevolissimi: 20 moggia, 7 staia e 3 minali di frumento, 153 moggia, 6 staia e 1,75 minali di segale, 34 moggia di orzo (1 moggio, di 8 staia di 4 minali, corrispondeva a circa 95 litri), oltre a 31 lire e 2 soldi imperiali19. Le uscite complessive documentate sono di 13,5 staia di orzo, 416 di segale, 113 di frumento, al di là di piccole quantità oggetto di passaggi più diretti, ad esempio per un salario (4 staia di orzo e 5 staia di segale), oltre a 880 lire e 5 soldi imperiali. Dunque il comune erogò solo 1/3 dei proventi delle decime in natura, i restanti 2/3, venduti, dovettero consentire la disponibilità del denaro liquido speso dal canevaro della biade. Il controvalore in denaro degli introiti delle decime, insomma, superò orientativamente le 1250 lire imperiali. Ovviamente si tratta di valori sottoposti a significative fluttuazioni, di resa stagionale e di quotazione di mercato; si può però approssimare che, del bilancio del comune, che a seconda delle annate riusciva a mantenersi in sostanziale pareggio o anche in leggero attivo, almeno la sesta parte delle entrate provenisse dalle decime, che fruttavano più dell’affitto dei pascoli, più di un singolo esercizio dei più lucrosi, come la taverna maggiore del borgo o l’albergo dei Bagni, una nota stazione termale.
19La specificazione spesso analitica delle destinazioni consente una empirica suddivisione: a supporto del funzionamento del comune andarono 7,5 staia di orzo, 256 di segale, 4 di frumento; alle elemosine individuali 5 staia di orzo, 85 di segale, 13 di frumento; ad alcune grandi elemosine collettive 1 staio di orzo, 75 di segale e 96 di frumento.
20Per entrare nel merito, sotto la prima voce ho raccolto corresponsioni al personale del comune di ogni livello, dal podestà al capraio, passando per il salario dei consiglieri o il rimborso della missione del maggiorente inviato alla Dieta delle Tre leghe. 5 staia di orzo si diedero agli examinatores per la stessa redazione materiale del quaternus decimarum. I cereali, uno dei mezzi di pagamento alternativi al denaro comunemente in uso nei circuiti dell’economia precapitalistica, costituirono la mercede, erogata ad un intero vicinato o a singoli operai, per la realizzazione di strade, ponti, pozzi per la produzione della calcina sulla montagna della Reit, alle spalle del borgo, e di una fornace, delle recinzioni e delle draze (gli sportelli nelle recinzioni delle colture); vennero dati ad un magister che bilanciò le stadere impiegate per la pesatura ufficiale.
21Circa la seconda voce, decine di individui di tutto l’esteso territorio, dalla Valdisotto a Livigno, godettero della generosità del comune, in particolare nella difficile prima parte dell’anno, quella che andava dai mesi del pieno inverno alla primavera inoltrata, quando i più precoci frutti dell’agricoltura alleviavano le condizioni di vita dei contadini. Destinatari del frumento, della segale e dell’orzo furono «plures pauperes Christi» e persone che, già non benestanti, si trovavano in situazioni momentaneamente critiche. Le registrazioni sono spesso molto stringate. La laconicità stessa è una testimonianza culturalmente rilevante, perché l’impiego di forme di denominazione che non avrebbero avuto corso nei registri giudiziari, nelle carte dei notai o nei verbali delle attività comunali — il solo soprannome, l’anonimato delle donne individuate solo dal nome del marito — non prova solo il meno rigido inquadramento legale della scrittura contabile, ma anche il trattamento paternalistico del povero, di cui era meno necessario riconoscere la singolarità. Tuttavia la genericità dei dati personali e della causale, amore Dey, costringe spesso a fermarsi alle congetture a proposito di ciò che più interesserebbe. Notevole, ad esempio, è il numero di donne beneficate e registrate nel riferimento al marito ancora in vita. Poteva quindi trattarsi di figure afflitte da varie condizioni di debolezza sociale (certamente non vedove né madri che avessero avuto figli al di fuori del matrimonio, piuttosto mogli di modesti artigiani che d’inverno lavoravano lontano), ma forse soprattutto delle nutrici che allattavano i figli di donne in particolare difficoltà o i «figli del comune», cioè i trovatelli, cui questo ruolo conferiva una visibilità documentaria che altrimenti è sempre riservata al pater familias. Una rara più ricca registrazione riguarda lo staio di frumento dato alla donna della contrada di Santa Maria Maddalena che aveva partorito tre gemelli. Un altro abitante di Santa Maria Maddalena ricevette 4 staia di orzo direttamente dal decimario di Longa Trexenda, zona della piana di Bormio lungo il fiume Adda, pro securitate, vale a dire per uno di quei prestiti di cereali che il comune accordava ai contadini al momento della semina, prevedendo la restituzione dopo il raccolto.
22Il riscontro sul registro delle contemporanee delibere consiliari non chiarisce come queste situazioni venissero portate all’attenzione delle autorità comunali (se fossero presentate direttamente dagli interessati o dai consiglieri o da altri mediatori), ma consente di approfondire qualche particolare. Più distintamente, ad esempio, emergono le premure del comune per l’inabilità fisica e mentale, una delle molte sfaccettature del vasto arcipelago della paupertas. Vi si menziona, infatti, una anonima ceca residente nel quartiere di Buglio che ricevette 1 staio di segale20. Alla moglie di Francesco de Ganzina furono assegnati 2 staia di frumento forse per sovvenire un nucleo familiare colpito dalla condanna a morte di Nicola, figlio di Francesco21. A carico di un precedente canevaro delle biade furono largiti 20 soldi ad una mentecapta sempre senza nome e altri 5 staia di segale e 22 soldi a quattro pauperes, donne e uomini, uno di Livigno e una di Sondalo (quindi non del territorio comunale)22.
23Infine, vi erano le grandi elemosine istituzionali, coincidenti con le feste dell’Annunciazione (25 marzo) e dell’Ascensione (dalla collocazione mobile). La prima era a cura di un apposito organismo controllato dal comune. La seconda veniva organizzata direttamente dal comune (impegnando in prima persona il canevaro e i due ufficiali maggiori), che metteva a frutto anche le offerte di alcuni benefattori (maggiorenti cui l’ente doveva la remissione di un debito e donazioni testamentarie)23. Ai deputati del consorzio di Santa Maria, che in occasione del 25 marzo distribuivano pane, si diedero 31 staia di segale con un supplemento di altre 24; ai vicini di Livigno «pro eorum parte ellimosine Sancte Marie martii», cioè per una festa analoga che si teneva nel villaggio più remoto della giurisdizione, 8 staia di segale. 96 staia di frumento furono destinate «pro faciendo bucellas Assentionis». Per avere un’idea della loro entità effettiva, si può calcolare che l’investimento di cereali era tale da assicurare, nell’ultima circostanza, la produzione di circa 6.000 pagnotte di circa 200/250 grammi l’una. È da rimarcare anche che si trattava di pane bianco in una zona di montagna in cui, stando agli stessi introiti decimali (frumento: 10 %; segale: 74 %; orzo: 16 %), il cereale più pregiato era un prodotto minoritario della campicoltura24. Del pane, poi, inevitabilmente avanzava e, dopo la festa dell’Annunciazione come dopo quella dell’Ascensione, il comune lo usava per compensare piccoli servigi25.
24È evidente, dunque, che il motivo ispiratore era un’idea di integrazione della comunità che valorizzava la condivisione rituale e non l’identificazione analitica, che in questo periodo cominciava ad essere incoraggiata dalle autorità ecclesiastiche, di «veri poveri» in qualche modo separati dal resto della società dallo stesso gesto caritativo. Invece, per ipotesi, di assicurare il pane quotidiano a qualche decina di nuclei familiari bisognosi per un anno, il comune sceglieva infatti di destinare le risorse corrispondenti a feste che, nel borgo e nei centri periferici in cui le cerimonie erano replicate, dovevano richiamare la totalità degli abitanti della giurisdizione, oltre agli eventuali forestieri. Ciò non toglie che, nonostante le censure delle gerarchie diocesane verso quelli che venivano ridotti a disordini e abusi, tale forma di «elemosina», come comunque era detta, connessa enfaticamente dalle fonti consiliari ai pauperes, poteva offrire in effetti l’opportunità di sfamarsi, almeno per un giorno, ai poveri mobili di luogo in luogo. Essa non era dunque priva di una funzionalità propria, perché i vagabondi alla costante ricerca di occasioni di questo tipo saranno sempre più spesso esclusi dalla razionalizzazione moderna delle sovvenzioni riservate in modo privilegiato ai soli appartenenti alla comunità26.
25Si aggiungevano piccoli e ingenti pagamenti in denaro: 2 ducati ai riparatori delle vie della contrada di Cepina, 2 lire e 4 soldi a una donna amore Dey, 459 lire, 16 soldi e 3 denari al canevaro maggiore della sorte estiva 1552, 100 al canevaro della sorte invernale 1552-1553 (denaro evidentemente destinato a sostenere le attività del comune nel loro complesso), 221 lire al canevaro della taverna, 5 soldi per un lavoro di scrittura e contabilità dei cereali, 53 ducati portoghesi dati all’ufficiale maggiore e al canevaro dell’estate 1552, con varie destinazioni, ad esempio «in solutione vinorum taberne», quindi per rifornire l’esercizio comunale.
26Nel complesso, mentre delle somme convertite in denaro si preferiva fare diverso uso, dei cereali che il comune dispensava come tali una parte significativa andava in beneficenza. Rispetto agli introiti, le elemosine private assorbivano l’1,9 % dell’orzo, il 7 % della segale, l’8 % del frumento, quelle cerimoniali lo 0,4 % dell’orzo, il 6 % della segale e il 57 % del frumento. Riferendo il computo al complesso non delle entrate, ma delle uscite in cereali, le largizioni individuali rappresentavano il 37 % dell’orzo, il 20 % della segale, l’11,5 % del frumento; quelle collettive il 7 % dell’orzo, il 18 % della segale e l’85 % del frumento. Evidentemente, il comune preferiva convertire in denaro una parte cospicua dei cereali. Della segale e dell’orzo che restavano, però, riservava quasi la metà alle elemosine, che invece, in particolare le elemosine festive, costituivano in termini assoluti la destinazione privilegiata del frumento. Era una significativa scelta di investimento rituale, trattandosi del cereale con cui impastare il pane bianco, di maggior prestigio sociale, ma anche quello che avrebbe reso di più se collocato sul mercato.
27Meno sistematiche scritture precedenti confermano la pratica gestionale. Un quaternus riferito alle decime incantate nell’anno 1527 ma alle spese del canevaro della biada effettuate fra il 1528 e il 1529, redatto dai due examinatores communis, è molto meno analitico perché per alcune spese rinviava al quaternus personale del canevaro27. Registra comunque introiti di 24 moggia di frumento, 127 moggia e 3 minali di segale, 143 moggia, 5 staia e 1 minale di orzo. Si aggiungevano, dall’attivo del predecessore, 2 staia e 3 minali di frumento, 1 moggio, 1 staio e 2 minali di orzo. Alcuni quantitativi di cereali non erano stimati e venivano dispensati come tali: 9 moggia e 6 staia di frumento per la «dada» dell’Ascensione; 50 moggia di segale in «partite» senza specificazione né di destinatari né di causali. Gli introiti (verosimilmente sottratti questi quantitativi dati direttamente) venivano stimati 472 lire e 18 soldi imperiali. La summa summarum delle spese (questa senz’altro escluse le quantità date direttamente) era calcolata di 404 lire e 15 soldi imperiali. Da questo denaro, in un anno meno favorevole del 1551, erano tratte tre singole largizioni amore Dey (per sole 6 lire), una sovvenzione di 4 lire e 16 soldi alla chiesa dedicata nel borgo a San Vitale, quanto occorreva per laboreria vari, fra cui si segnala quello di magister Francesco Sermondi, che come mercede per la realizzazione dell’orologio della torre civica ebbe 31 lire e 8 soldi, per compensare lo stesso canevaro delle biade e gli altri ufficiali, a partire dal podestà, e deputati vari, per rimborsare le loro missioni, ma anche per comprare una coperta data al maestro di scuola (per 10 lire e 10 soldi) e il quaternus degli examinatores.
28Ancora più parziale, ma perlomeno dalle singole voci meno ellittiche, è il bilancio del 1533, documentato da un quaternus datarum, quindi delle sole uscite, del canevaro in carica dal 30 novembre 1532 al 30 novembre 1533 e scritto da un notaio28. Dalla summa summarum finale risultano essere stati dati 19 moggia di frumento, 22 moggia e 7 staia di segale, 1 moggio e 3 staia di orzo, oltre che 64 lire e 12 soldi imperiali. Si confermano i compensi per il personale (sempre dai consiglieri al capraio) e le indennità per le missioni ed altri negotia svolti per il comune, anche quelli straordinari come nel caso dei deputati sulla Sanità, nonché «pro […] benemeritis factis communi» più generici, la spesa «pro factura quaterni decimarum», il finanziamento di ponti, strade, recinzioni e le paghe di chi se ne occupava. Vi erano poi le largizioni. 2 moggia e 8 staia di segale furono destinate «pro faciendo panem Sancte Marie marci secundum ussum», 7 moggia di frumento al pane dell’Ascensione. 26 staia di frumento furono vendute per sostenere le spese per i predicatori quaresimali. Per quanto riguarda i provvedimenti di carattere individuale, integrando le registrazioni assai cursorie con i verbali di consiglio29, è possibile annoverare 14 destinatari per lo più maschi di 5 staia di frumento e 35 staia di segale. Tutte le largizioni furono disposte fra novembre e maggio. Per poche di esse la ragione viene dettagliata: 9 staia di segale furono date alla nutrice della figlia di una donna muta di Premadio e di cui evidentemente non si conosceva il padre; 2 staia di frumento a Rizola «que iacet in infirmitate cum maxima paupertate»; 4 staia di segale a Tonio Motti perché aveva perduto in un incendio «hediffitia sua». Nelle altre voci la succinta motivazione è amore Dey: presumo si trattasse di aiuti a nuclei familiari in difficoltà e di compensi a nutrici. Quello di Pietro di Semogo, detto testor (e non mi sembra trattarsi di un cognome ormai indipendente dall’effettivo mestiere esercitato), pare un caso tipico di povertà congiunturale: un artigiano che per una malattia, un infortunio o qualche altro caso infelice non riesce più a mantenere se stesso e la sua famiglia con il proprio lavoro, perlomeno temporaneamente, e viene soccorso con 1 staio di segale. Biagiotto Maiolanus di Livigno, che ricevette 1 staio di segale a dicembre e un altro maggio, si direbbe invece più dipendente dalle erogazioni comunali. Al canevaro delle biade del precedente anno 1532, evidentemente ancora debitore del comune, fu addebitata un’altra parte delle spese per la sopravvivenza della figlia della donna di Premadio soprannominata la Muta, 2 staia di segale «pro dando Migine nutrici». Sempre al canevaro già decaduto fu addossato, a maggio, il versamento di 1 staio di segale allo stesso Pietro Payni che a febbraio ne aveva ricevute 2 sul conto della gestione corrente. Egli ricevette anche modesti compensi per una missione (20 soldi imperiali) e per le custodie prestate presso la chiesa plebana nel corso di una controversia che riguardava l’arcipretura (40 soldi). Queste schegge di una biografia testimoniano dunque una situazione ambivalente, cioè che la vita pubblica poteva offrire qualche modesta posizione anche ai poveri, magari offrendo loro l’opportunità di procurarsi così un po’ di denaro, e d’altra parte che pure l’inserimento nella comunità non risparmiava dalla precarietà dell’esistenza. Si fece ricorso, inoltre, ad altre pubbliche riserve per gli stessi bisognosi: all’uomo che presumibilmente aveva visto bruciare la casa e i rustici annessi fu data anche mezza soma di vino, a carico del canevaro della taverna; ai primi rigori dell’autunno, il 10 ottobre, si destinò un braccio del cosiddetto «panno delle elemosine» custodito in uno dei solaria comunali sempre alla figlia della Muta, altra inabile dunque ampiamente dipendente dal comune, da cui era stata e sarà ancora soccorsa in occasione di diverse maternità30.
29Nel complesso, trattandosi come si diceva di un quaderno di soli data, è possibile stabilire che andarono in elemosine il 40 % del frumento che il comune dispensò (37 % per le erogazioni collettive e 3 % per quelle individuali) e il 32 % della segale (13 % per le erogazioni collettive e 19 % per quelle individuali).
30Alcune operazioni risalenti a quell’anno consentono di discutere altre possibili forme di intervento del comune in favore delle fasce più esposte della popolazione. Il 10 marzo l’ente decise di vendere 26 staia di frumento, come si accennava per sostenere le spese dei predicatori, al computo di 20 soldi imperiali per staio. Il frumento aveva la stessa valutazione, direi esclusivamente di conto, quando ad aprile venne stimato il quantitativo destinato alla distribuzione dell’Ascensione. Invece il 24 marzo il Consiglio ordinario, la massima magistratura collegiale del borgo, sollecitava il canevaro delle biade ad esigere quanto dovuto da tutti coloro che erano tenuti a restituire quantitativi di cereali, irremissibilmente entro Pasqua, quotando la segale a 20 soldi lo staio, l’orzo a 14. La segale, per contro, era stimata solo 15 soldi lo staio a fine maggio, quando era il comune a doverne vendere per coprire alcune spese. Tutte queste date precedono la raccolta dei cereali. Dopo la mietitura, a settembre, i cereali dati pro securitatibus, il meccanismo di prestito di cui si è detto, erano stimati 22 soldi imperiali per staio di frumento, 18 per staio di segale, 12 per staio di orzo. In sostanza il comune chiese per 1 staio di segale 18 soldi ai contadini e 20 soldi agli insolventi, mentre lo vendette a 15 soldi. Pretese per 1 staio di frumento 22 soldi dai contadini e lo fece smerciare a 20 soldi31. Dunque l’ente, che non subisce in nessun caso ma detta il tariffario, non pare venire incontro in modo programmatico ai contadini: questi ultimi, quando i cereali espressamente furono «taxati» allo stesso modo «tam decimaris quam securitatibus», ebbero lo stesso trattamento dei soggetti appaltatori delle decime, che potevano essere collettivamente i vicinati dei poveri villaggi delle Vallate ma anche imprenditori che tentavano un investimento di carattere speculativo32. D’altra parte quando l’ente a marzo e a maggio vendette il frumento e la segale a prezzi che appaiono comparativamente bassi svolse una funzione calmierante sul mercato dei grani in primavera.
31Questa documentazione panoramica consente di situare in un quadro più organico le molte destinazioni di cereali attestate dai registri consiliari e di uscite, nonché dagli atti notarili. In termini generali, i cereali servivano per far fronte a gran parte delle incombenze comunali come moneta sostitutiva o anche per procurarsi denaro liquido: nel 1525, evidentemente a raccolta appena effettuata, il Consiglio ordinario stabilì che gli ufficiali potessero vendere i «blada decimarum communis» dell’anno presente a prezzi determinati fino all’ottava di Natale33. Di seguito ho selezionato alcuni casi in cui la provenienza decimale è esplicita, che consentono di ricapitolare l’ampia gamma di situazioni che abbiamo già delineato.
32Innanzitutto le decime auto-finanziavano la loro gestione. Nel 1516 la vendita o l’ipoteca «de omnibus rebus […] ac de bladis decimarum dicti communis» serviva, insieme ad altri introiti, per corrispondere al vescovo il fitto dei due anni passati dovuto per la stessa investitura delle decime34.
33Sostenevano i lavori pubblici. Nel 1522 il canevaro maggiore percepì 5 moggia di segale, 4 di orzo e 1 di frumento da Florino Panzoni, incantatore della decima degli Allodi, delimitata da uno status giuridico e non da un toponimo e relativa ad un’ampia porzione del fondovalle, nell’estate del 1521, cereali dati a Tonio Rasigarius di Cepina a parziale corresponsione della mercede dovutagli per la riparazione di un tratto della strada che percorreva la contrada35. Nel 1537 il Consiglio ordinario stabilì che i deputati al restauro del ponte «de Scalla», lungo il percorso che conduceva oltralpe, fossero i destinatari dei cereali della decima «de Xanno», una località vicina, presso Isolaccia, in Valdidentro36.
34Consentivano di pagare le attività istituzionali e i salari del personale a vario titolo impegnato dal comune. Nel 1513 si autorizzò il canevaro maggiore a ricevere 2 moggia di segale da Nicolino Tonoli, incantatore della decima di Uzza (una contrada della Valfurva), da consegnare al maestro di scuola come parte della soluzione del compenso pattuito37. Nel 1515 si decise di vendere 43,5 moggia di segale e orzo provenienti dalla decima degli Allodi e altre 42 derivanti dalla decima sui novali per compensare i generici negotia communis di cui si erano fatti carico Gian Francesco Alberti, l’esponente più in vista della maggiore famiglia Del Borgo, e Giovanni Fogliani38.
35Vi erano poi le contingenze di eccezionale gravità, che attivavano sistemi paralleli e parzialmente intersecantisi di recupero delle risorse necessarie: il ricorso alle decime, le taglie, l’indebitamento e la vendita dei beni comuni. Allora la disponibilità di cospicue entrate in cereali, maneggiate sempre dai principali del borgo, aveva comunque ricadute positive per tutti gli abitanti: consentiva evidentemente di contenere l’inasprimento fiscale, una delle cause generali dell’impoverimento collettivo, risparmiare il patrimonio indiviso, importante integratore del reddito domestico, ed evitare l’esposizione eccessiva o troppo prolungata nei confronti dei creditori.
36In tali frangenti le spese militari crescevano esponenzialmente. Il Consiglio ordinario nel 1513 stabilì che le 41 moggia di segale e orzo pro medietate e le 2 moggia di frumento di cui Taddeo de Piro, incantatore della decima degli Allodi, era ancora debitore nei confronti dei superstantes bladorum del 1512 gli fossero stimate in denaro, con la possibilità però di compensare un suo credito verso il comune a causa degli stipendi pagati a numerosi soldati39.
37Nel 1525 si fronteggiò un’altra emergenza indotta dalle incursioni nel territorio valtellinese e valchiavennasco del condottiero Gian Giacomo Medici e della risposta militare grigiona. Furono eletti cinque «deputati […] ad alienandum de bonis communitatis Burmii causa subventionis fiende dominis capitaneis exercitus trium Ligarum», fra i quali erano Giovanni Alberti, nonché Nicolino Fogliani e Gian Battista del Groxino. Questi, il 19 novembre, riunitisi con i due ufficiali maggiori in una sede insolita, nella torre di Gian Francesco Alberti, ricevettero (in anticipo rispetto alla data consuetudinaria di consegna) il corrispettivo in denaro di 30 moggia di segale e orzo dalle decime di Canexia, presso l’abitato principale, degli Allodi e di Fumarogo, il primo villaggio della Valdisotto a sud di Bormio, in tutto 86 lire e 8 soldi, denaro da destinare a Morbegno ai capitani dell’esercito, secondo quanto ordinato al comune. Per avere un termine di paragone, all’appaltatore dei Bagni si potevano chiedere, al medesimo scopo, 150 lire imperiali sul fictum che complessivamente doveva pagare40.
38Soprattutto le crisi militari generavano debiti che non era facile soddisfare. Nel 1512 il comune fu investito dai rivolgimenti connessi al mutamento di regime (la separazione dal ducato di Milano ormai retto dai francesi e l’assoggettamento alle Tre leghe), ed identificò evidentemente nel bladum un ottimo strumento per fronteggiare la situazione, istituendo una magistratura straordinaria per la sua gestione, due deputati che presero il posto del canevaro delle biade. Destinò 36 moggia e 1 staio di segale e orzo pro medietate, dalle decime di Uzza, a Giovanni detto Fanichetus Fogliani, così ripartiti: 16 moggia e 1 staio a restituzione di un’obbligazione di pari entità, 20 moggia a pagamento di 5 some di vino consegnate da Giovanni al castellano di Fürstenburg (in Val Venosta) «in eo castro, pretio raynensium XV, occaxione parte solutionis expensarum factarum per eum castelanum in eo castro» per Antonio Fiorini, Gian Battista del Groxino, Nicolino Fogliani e Battista Bruni, «detentos in eo castro nomine communis occaxione tallee communi Burmii impossite per capitaneum et consilium Trium ligarum». Dunque il nuovo governo grigione aveva imposto una taglia, a causa dell’inadempienza del comune quattro esponenti di vario rilievo della politica locale erano stati detenuti. Il loro mantenimento aveva costituito un costo per il castellano-carceriere, valutato in moneta ma pagato in vino da un imprenditore del borgo compensato, sempre senza ricorrere al denaro, con i cereali di una decima (o meglio con un’obbligazione che impegnava l’incantatore a consegnarli entro il giorno di Sant’Andrea)41. Nel 1514, all’inizio di gennaio, il Consiglio ordinario impose il versamento di tutti i cereali ancora dovuti per le decime entro il martedì successivo (sotto pena di un quarto del dovuto e l’obbligo del versamento in denaro secondo la stima stabilita dal comune) in modo da estinguere il debito contratto con Santa Maria degli Angeli di Tirano, santuario arricchito da cospicue donazioni, cui ci si era rivolti per conseguire la liquidità occorrente nelle difficoltà di quegli anni42. Nel 1515 si consentì al canevaro maggiore di vendere «ex bladis decimarum communis» sino alla quantità corrispondente a 9 fiorini del Reno da restituire al maggiorente Gian Francesco Alberti per il denaro che egli aveva mutuato allo scopo di coprire la soluzione di metà degli stipendi di 50 soldati. Al contempo era stata pure istituita una taglia per pagare queste spese militari43.
39Le decime erano considerate più preziose di altre risorse, se nel 1514 si stabilì di vendere, ottenendone poi l’investitura perpetua e la gratia di recupero, «de bonis communis, reservatis decimis», per estinguere il debito contratto con Biagio de Pilizariis di Como che aveva prestato il denaro necessario a pagare una taglia imposta dalle Tre leghe44. In realtà anche le decime furono impiegate a questi scopi, ma con la particolare premura di riscattarle appena possibile. Nel 1512 il comune, dovendo pagare la taglia ai nuovi dominatori grigioni, deliberò una «impegnatio seu venditio» della decima di Canexia a Gian Francesco Alberti. Nel 1514 si stabilì di esigere dall’esattore della taglia del 1512 150 lire imperiali «causa exigendi decimam», cioè, direi, per annullare l’operazione, stabilita da persone che non avevano l’autorità per compierla45. Ancora nel 1593 il comune, dovendo estinguere un debito di 600 scudi (3.900 lire imperiali secondo il cambio vigente), contratto «tempore controversie religionis», decise di vendere al capitolo della pieve le decime degli Allodi (4 moggia di segale e orzo) e di Uzza (120 staia di segale), per 3000 lire46.
40La documentazione notarile, i verbali consiliari e le note di spesa confermano le finalità caritative delle decime. Persino quando nel 1525, come si è accennato, il comune destinò il denaro riscosso al posto della segale e dell’orzo di alcune decime al pagamento di incombenti spese belliche imposte dal governo, il frumento, 4 moggia in tutto, non venne monetizzato, ma espressamente eccettuato, con lo scopo di andare a costituire materialmente il pane che veniva erogato («reservatur […] pro necessitate communis, seu causa elemosinarum fiendarum nomine communis pauperibus Christi»)47.
41Per quanto riguarda le distribuzioni cerimoniali, già nelle norme generali una quantità di frumento invernale era fissata per alcune decime indipendentemente dall’esito della gara d’appalto e destinata «pro certis elemosinis48». Nel 1514 il canevaro maggiore avrebbe dovuto attestare la ricevuta di 37 lire e 8 soldi imperiali per 8,5 moggia di frumento dai decimari Giovanni Alberti (2 moggia) e Gian Antonio Alberti (2), per la decima degli Allodi, e da Nicolino Tonoli, per la decima Uzza (4,5) «pro faciendo elimosinam», quella istituita da Nicola, Cristoforo e Antonio Alberti, e da Bono Ianzoni, «in festum Asensionis. Et residuum frumenti expensi ad supplendum dictam elimosinam ipse canevarius emat a Tadeo de Piro», si aggiungeva, prova dell’imprenditorialità con cui il comune non si limitava ad immagazzinare e dispensare i cereali, ma li vendeva e li comprava nei diversi momenti dell’anno a seconda della necessità49.
42Infine, per sostenere la popolazione in una situazione critica, nel 1512, durante la peste, si era chiesto all’incantatore della decima di Uzza di distribuire pane di segale «nomine communis» e nel 1514 gli fu calcolato l’onere sopportato50.
Nota finale
43Il contributo che la ricerca qui presentata intende apportare ad un lavoro collettivo sulla povertà, sui suoi risvolti pratici e sulla rete di supporto allestita dalle istituzioni, consiste nell’esplorazione di questo tema dalla prospettiva del prelievo decimale. Può risultare stridente il contrasto fra la secolare retorica dalle ascendenze bibliche — ricorrente dall’alto medioevo in testi normativi, omiletici e dottrinali — che finalizzava le decime al sostentamento dei poveri, da un lato, e le dinamiche politiche in cui le decime si posero piuttosto come uno strumento fra i più validi della potenza delle chiese e di quei laici che, grazie ai legami clientelari con abbazie e vescovadi, conseguirono i diritti di esazione e li usarono per rafforzare la loro autorità locale, dall’altro. Più movimenti di riforma o eterodossi denunciarono quella che ritenevano una contraddizione, contestando il versamento delle decime a causa del loro uso distorto rispetto ai valori espressi. Eppure il complesso rapporto fra decime e povertà continuò a svilupparsi e quegli ideali incontrarono una nuova efficacia: una forma specifica di destinazione delle decime all’aiuto degli umili si verificò in una regione, come la Lombardia settentrionale, in cui i comuni di borgo e di villaggio divennero, dal xiv secolo, sufficientemente forti da ottenerne la cessione dalle famiglie aristocratiche, con un atto di carità testamentaria o una transazione squisitamente economica che magari concludeva un contenzioso. Ne fecero, dunque, da un punto di vista pratico e simbolico, un vero e proprio bene collettivo. Le comunità senz’altro continuarono a riconoscerne il possesso dalla chiesa episcopale di Como, da monasteri o pievi, eventualmente impegnandosi al versamento di canoni significativi, ma si trovarono a disporre di ingenti introiti.
44I complessi e, dal primo Cinquecento, ben documentati meccanismi contabili di Bormio consentono di ricostruirne gli usi concreti. L’ente destinò le risorse così conseguite in parte alla routine amministrativa, ai lavori pubblici e a servizi vari (come la scuola), in parte a fronteggiare spese straordinarie, ad esempio di carattere militare, contenendo così il ricorso all’inasprimento fiscale o all’indebitamento. Altre quote ancora consentirono di fornire ai contadini la semente a buon prezzo, mandare a balia i trovatelli o i figli di donne in particolari difficoltà (come una muta aiutata più volte negli anni), sovvenire con cereali o denaro i poveri strutturali (una cieca, una folle) e chi era esposto a problemi congiunturali (per malattia o episodi fortuiti, come un parto plurigemellare o l’incendio della casa). A questa pioggia di piccoli aiuti si aggiungevano le elemosine cerimoniali, distribuzioni collettive di pane che si tenevano nei giorni dell’Annunciazione e dell’Ascensione, quando si consegnava alla popolazione un’ingente quantità di pagnotte di frumento, cereale relativamente raro in queste terre di montagna.
45Le consuetudini che abbiamo ricostruito sono lontane dalle politiche sociali moderne, se non altro perché mancavano sia la disciplina della povertà, sia il tentativo di trasformare in meglio la condizione del bisognoso. Non sappiamo nemmeno come avvenisse l’identificazione delle situazioni di fragilità; è possibile che vi concorressero la notorietà dei problemi di una famiglia, come la capacità del singolo di ottenere l’attenzione del Consiglio ordinario per il tramite di qualche figura di prestigio che lo proteggeva; per contro non vi è traccia dell’operare di tassonomie sociali più rigorose (e più esclusiviste), come quelle che classificavano i poveri come meritevoli, oziosi, vergognosi e via dicendo. Penso dunque sia necessario evitare l’appiattimento di tali gesti di carità alla luce delle polemiche e delle istanze riformatrici che, a partire dal Cinquecento, per impulso soprattutto delle autorità ecclesiastiche, ma non senza l’adesione degli intellettuali locali e dei corpi territoriali, ne hanno preso di mira il carattere occasionale e indiscriminato, fino a ridurli alla mera dissipazione. Per contestualizzare l’intervento sociale nelle comunità in esame tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna è invece opportuno riconoscerne le logiche proprie. Riproponendomi di tornare altrove su questi temi, qui vorrei sottolineare soprattutto come l’entità notevole delle risorse impegnate e l’articolata attività di gestione e di scrittura dimostrino in ogni caso un intenso e non improvvisato sforzo per l’allestimento di forme di sollievo pure estemporaneo del bisogno individuale e delle erogazioni concomitanti con le ricorrenze festive. Sulla base di una tradizionale cultura della misericordia, la cui motivazione espressa era l’amor Dey, a beneficio di un pauper dai contorni abbastanza indeterminati, piuttosto che la sollecitudine filantropica o il controllo politico, si perseguiva l’integrazione della stessa comunità che si era fatta artefice dell’intero sistema, in nome di una reciprocità e di una responsabilità collettiva di fronte alla debolezza economica che venivano manifestate, con grande dispendio, sul piano cerimoniale, ma che, al contempo, non mancavano di garantire agli individui supporti materiali di natura non solo simbolica.
Notes de bas de page
1 Babilas, 1968, p. 220.
2 Archivio storico del comune di Grosio, Pergamene, 27, 1370.10.15; 55, 1399.03.27; 75, 1407.01.01. È possibile che anche altri cospicui fitti in cereali lasciati dai Venosta al comune e ai poveri di Grosio avessero origine decimale, ma la documentazione non lo esplicita: Della Misericordia, 2003, p. 450, n. 79.
3 «I signori della Valtellina de Capitani e Beccaria», Biblioteca comunale «Pio Rajna» di Sondrio, Valt.misc.146/32, (riproduzione fotostatica), p. 8.
4 Archivio di stato di Sondrio (ASSo), Archivio notarile (AN), 75, fo 260ro-vo, 1415.05.13; 76, fos 141ro-143vo, 1421.06.11.
5 Archivio storico della diocesi di Como (ASDCo), Collationes benefitiorum (CB), II, pp. 13-14, 1433.06.03.
6 Brentani, 1956, pp. 20-25, doc. CCCXI.
7 ASDCo, Bonorum ecclesiasticorum (BE), I, fos 199ro-200vo, s.d.; fos 356ro-357ro, 1454.02.19; CB, I, pp. 773-775, 1460.08.02.
8 ASDCo, BE, I, fos 404ro, 405ro, 1477.12.04.
9 ASDCo, Visite pastorali, 4, fasc. 3, fo 89ro-vo, 1571.11.09 (gli elementi della data non concordano).
10 ASCo, AN, 131, fos 937ro-941ro, 1508.08.09.
11 ASDCo, CB, II, pp. 569-570, 1459.07.09.
12 Archivio storico del comune di Bormio [ASCB], Quaterni consiliorum [QC], 1521.02.21.
13 Martinelli, Rovaris, 1984, pp. 166-169, capp. clvi-clvii, pp. 274-275, cap. ccxcviii.
14 ASCB, QC, 1522.03.14. V. anche Martinelli, Rovaris, 1984, pp. 250-251, capp. ccliv-cclv, per la conservazione e la custodia dei cereali.
15 Longa, 1998, p. 130.
16 ASCB, Inventario dei beni del contado di Bormio, 1553, in particolare fos 16vo-19ro.
17 ASCB, Inventario dei beni del contado di Bormio, 1553, in particolare fo 19ro, 1497.06.31, 1497.07.01.
18 ASCB, Quaterni fictorum (1490-1553), Quaternus datorum et receptorum per caniparium bladorum communis 1552 ex bladis anni 1551.
19 Zoia, 2006, p. 166.
20 ASCB, QC, 1552.01.09.
21 ASCB, QC, 1552.02.12.
22 ASCB, QC, 1552.01.09, 1552.02.12.
23 Silvestri, 1995, pp. 57-59, 144-145, 164-166; Martinelli, Rovaris, 1984, pp. 164-165, cap. cliv, pp. 170-171, cap. clix, pp. 264-265, cap. cclxxxiii; ASCB, Inventario dei beni del contado di Bormio, fo 85ro-vo, 1522.08.23 e s. d. Nel computo dell’inventario, tali legati sovvenzionavano la distribuzione di pane per l’ammontare di 111 lire imperiali e 10 soldi; le 54 lire assicurate dai lasciti più antichi venivano fatte corrispondere consuetudinariamente a circa 9 moggia di frumento, sebbene la documentazione contabile attesti la variabilità nel tempo dell’equivalenza.
24 1 staio di cereali produceva 16/17 libbre di pane (ASCB, QC, 1481.03.26, 1494.03.13, 1514.03.04, 1533.03.24). Ogni panis seu bucella di frumento pesava 7/8 once (ibid., 1495.08.05, 1497.12.04). 7 once per la precisione era il peso prescritto per la micha distribuita in occasione dell’Ascensione del 1533 (ibid., 1533.04.26). Nel medioevo nella valle dell’Adda la libbra era di 30 once, forse nel Bormiese di 32. Se una libbra corrisponde a circa 0,9 chili è facile ipotizzare una pagnotta del peso di circa 200/250 grammi e un prodotto possibile, dal notevole monte complessivo di 96 staia di frumento e dunque di 1536/1632 libbre di pane, di oltre 6000 pagnotte. V. ancora Zoia, 2006, p. 166. A titolo di riscontro, gli introiti delle decime incantate nel 1527 furono di frumento per l’8 %, di segale per il 43 %, di orzo per il 49 %.
25 Ad es. ASCB, Quaterni receptorum e Quaterni datorum, 1498, sorte primaverile. Il pane della distribuzione di marzo era identificato dal latino documentario locale di questi registri come di minore qualità («pro carcentibus […] in festo alme virginis Marie»).
26 V. Della Misericordia, 2003, pp. 415-416.
27 ASCB, Registri vari, 1528.12.29.
28 ASCB, Registri vari.
29 ASCB, QC, 1532-1533 sorte invernale; 1533, sorte primaverile; 1533, sorte estiva.
30 ASCB, QC, 1523.09.01, 1525.03.08, 1525.04.19; 9, 1540.01.24; Quaterni receptorum, 1523, sorte estiva; Quaterni datorum, 1531 sorte primaverile.
31 ASCB, QC, 1533.03.10, 1533.03.24, 1533.04.26, 1533.05.30, 1533.09.15.
32 ASCB, QC, 1537.09.15.
33 ASCB, QC, 1525.12.18.
34 ASCB, QC, 1516.01.19.
35 ASCB, QC, 1522.03.14.
36 ASCB, QC, 1537.10.10.
37 ASCB, QC, 1513.08.22.
38 ASCB, QC, 1515.10.15.
39 ASCB, QC, 1513.06.14.
40 ASSo, AN, 615, fo 440ro-vo, 1525.11.19.
41 ASSo, AN, 569, fo 406ro-vo, 1512.10.02; fo 418ro, 1512.10.11.
42 ASCB, QC, 1514.01.05.
43 ASCB, QC, 1515.10.15.
44 ASCB, QC, 1514.06.12.
45 ASCB, QC, 1514.06.09.
46 Ignazio Bardea, «Memorie storiche per servire alla storia ecclesiastica del contado di Bormio», 1766, vol. 1, p. 356, ASCB.
47 ASSo, AN, 615, fo 440ro-vo, 1525.11.19.
48 ASCB, Quaterni exequendarum, 1486, sorte estiva.
49 ASCB, QC, 1514.06.03.
50 ASCB, QC, 1514.03.04.
Auteur
-
Massimo Della Misericordia
Università degli Studi di Milano-Bicocca
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