Le «tempeste internazionali» e il rilancio della via italiana: Togliatti e il Pci
p. 127-159
Texte intégral
Il XX Congresso del Pcus, la questione Stalin, l’intervista di Togliatti a «Nuovi Argomenti»
1Nella storia del Partito comunista italiano il 1956 rappresenta una data centrale, un punto di svolta e un passaggio decisivo per l’evoluzione del Partito, la precisazione del suo profilo strategico e della sua stessa identità. Alla fine di quell’anno la «via italiana al socialismo» risulterà ormai delineata in modo chiaro e articolato, e al tempo stesso la collocazione internazionale del Pci e il suo ruolo nel movimento comunista e nel più vasto schieramento antimperialista mondiale saranno definiti in termini nuovi.
2La capacità di direzione e di elaborazione di Togliatti in un anno molto delicato per il movimento comunista internazionale e per il partito italiano risulterà decisiva, e non a caso la sua leadership uscirà rafforzata dagli eventi, pur così difficili e contraddittori.
3Delle innovazioni introdotte da Chruščëv al XX Congresso del Pcus, Togliatti aveva apprezzato soprattutto la linea della coesistenza pacifica e le affermazioni relative alle diverse forme di transizione al socialismo, compresa quella democratica e anche prevalentemente parlamentare. Nel suo saluto al congresso, il segretario del Pci aveva affermato: «La via che voi avete seguita per giungere al potere e costruire una società socialista non è in tutti i suoi aspetti obbligatoria per gli altri paesi. A noi spetta il compito di elaborare una via italiana»1.
4Quanto al Rapporto segreto di Chruščëv, della delegazione italiana (composta, oltre che da Togliatti, da Scoccimarro, Cacciapuoti, Rita Montagnana, Bufalini, Bugliani, più Vidali per il Pc di Trieste)2 ne vennero a conoscenza solo il Segretario, che ne ricevette una copia, e Scoccimarro, a cui Togliatti stesso la mostrò. Rientrato in Italia, il leader del Pci, sentendosi vincolato alla riservatezza richiesta da Chruščëv, ne informò solo la Segreteria3. Nel suo rapporto al Comitato Centrale, evidenziò dunque soprattutto altri elementi emersi dal XX Congresso: l’ampliarsi del movimento comunista mondiale, e dunque la questione delle «diverse vie al socialismo» (da cui seguiva che la funzione di guida dell’Urss era «per lo meno, in via di modificazione») e quella della «utilizzazione del Parlamento». Su questo – aggiunse – «qualche cosa credo che noi abbiamo fatto», come nella ricerca di quella «via nostra, italiana, di sviluppo verso il socialismo» che «fu già preoccupazione costante di Antonio Gramsci». Quanto a Stalin, Togliatti ne sottolineò il ruolo e i meriti, criticandone invece la tesi del «continuo inasprimento della lotta di classe» durante il processo di transizione, ritenendola non tanto un «pretesto» per la repressione (come aveva detto Chruščëv) quanto piuttosto una tesi «esagerata, falsa», che aveva favorito le violazioni della legalità socialista, assieme al «mettersi, a poco a poco, al di sopra degli organi dirigenti del partito» e al «culto della persona» che aveva favorito «la burocratizzazione degli apparati»4.
5Tre giorni dopo, la Direzione discusse dell’imminente scioglimento del Cominform, anch’esso annunciato a Mosca, da sostituirsi con «contatti tra gruppi di partiti». Scoccimarro propose che si creassero «gruppi regionali di partiti», mentre Pajetta insisté sulla necessità di un’azione coordinata e unitaria col Pcf»5. Intanto la notizia dell’esistenza di un «rapporto segreto» di Chruščëv è ormai emersa, avviando in tutto il partito il dibattito su Stalin6. Si svolgono movimentate riunioni dei Gruppi parlamentari: tra i deputati, emergono le critiche di Amendola, Pajetta e Gullo, e lo stesso Togliatti afferma che con le rivelazioni di Chruščëv anche i comunisti italiani sono «liberati d’un peso»; tra i senatori, Terracini mette esplicitamente in discussione la democraticità dello Stato sovietico. In Direzione, Ingrao si chiede se gli errori denunciati da Chruščëv non indichino che vi sia «nel sistema qualcosa da correggere», mentre per Longo si conferma «la validità del sistema anche perché si adegua alla particolarità concreta [delle vie nazionali] e alle cose nuove»7.
6Al Consiglio nazionale del Pci in vista delle elezioni amministrative, Togliatti dedica pochi minuti alle problematiche emerse al XX Congresso, suscitando una delusione di cui si fanno portavoce Amendola e Pajetta. Nelle conclusioni, dunque, il Segretario torna sulla questione di Stalin, insistendo sulla fase storica drammatica in cui si era sviluppata la sua azione, sottolineandone gli aspetti positivi. Il gruppo dirigente, abituato a un approccio saldamente storicistico, gli tributa un applauso «scrosciante, polemico»8.
7Per Togliatti, le critiche «dovevano esserci. Sono critiche giuste […] manifestazioni di una correzione in atto». Stalin, tuttavia,
si è conquistato un posto nella storia alla testa di un’opera immane, della Rivoluzione d’Ottobre, della costruzione della società socialista, dell’affermazione e della difesa fino all’ultimo di questa società.
Questo posto quest’uomo lo tiene e lo terrà per sempre nella storia e nella coscienza degli uomini che sanno comprendere le cose. Le critiche cancellano gli errori della esaltazione personale e i difetti che da questi eccessi erano derivati nella vita di partito e nella vita politica dell’Unione Sovietica. Le indagini storiche non terminano oggi e non termineranno tanto presto credo, perché si tratta di una personalità che ha occupato un po’ di spazio sulla scena della storia.
D’altra parte – aggiunge –, non è un caso che il processo di revisione critica inizi ora, quando cioè paiono aprirsi nuove prospettive grazie al crollo del sistema coloniale, alla distensione e allo sviluppo stesso del socialismo. «Ecco perché proprio in questo momento la società socialista si può liberare e si libera del peso di determinati errori, i quali sono stati un doloroso tributo pagato alle condizioni stesse in cui si sviluppò la lotta e si dovette combattere, spesso anche a occhi chiusi, per non essere sopraffatti»9. È una notazione per certi versi anche autobiografica, e in generale Togliatti insiste sul contesto drammatico nel quale la vicenda sovietica dovette svilupparsi.
8L’atteggiamento del leader del Pci rispetto al XX Congresso è comunque cauto. Secondo Francesco Benvenuti, la sua «riluttanza […] ad affrontare il nodo Stalin nasceva da una seria riserva sull’operato di Chruščëv» e sul modo in cui questi aveva posto temi così delicati e complessi. Gian Carlo Pajetta, allora tra i massimi dirigenti del Partito, conferma: «Ci fu in lui come una sorta di fastidio […] anche intellettuale, di fronte a quella che a lui sembrò la rozzezza kruscioviana». Togliatti fu «uno di coloro ai quali il documento piacque meno […] proprio perché puntava sull’emozione e rinviava […] la ricerca»10. Scrive dal canto suo Pietro Ingrao, all’epoca direttore de «l’Unità»:
Egli valutò subito le implicazioni grandi della “rottura” operata al XX, vide le manovre che su di essa veniva innestando l’avversario di classe, ed essendo insoddisfatto delle forme e dei metodi con cui la svolta era stata gestita dal gruppo dirigente sovietico, sperò o cercò che da parte del movimento comunista internazionale si giungesse a guidare il processo di rinnovamento in modo più positivo, misurato nella forma […] ma avanzato nella sostanza.
È probabile dunque che Togliatti attendesse un segnale in questo senso dagli stessi sovietici11.
9Intanto il «New York Times», entrato in possesso del Rapporto segreto tramite il Dipartimento di Stato Usa, lo pubblica integralmente; in Italia lo emulano altri giornali. Il Pci critica «il modo insolito» con cui il documento è stato reso noto; ma la necessità di una presa di posizione è ormai stringente12. Verso la fine del mese, sono pubblicate le risposte di Togliatti alla rivista «Nuovi Argomenti», che aveva posto a vari intellettuali e dirigenti politici Nove domande sullo stalinismo (una categoria, quest’ultima, che il leader del Pci respingerà sempre, giudicandola semplificatoria e liquidatoria al tempo stesso). Nel suo contributo Togliatti sottolinea
il progressivo sovrapporsi di un potere personale alle istanze collettive di origine e natura democratica e, come conseguenza di questo, l’accumularsi di fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione, e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell’organismo sociale.
Si deve però subito aggiungere che questa sovrapposizione è stata parziale ed ha probabilmente avuto le più gravi manifestazioni alla sommità degli organi direttivi dello Stato e del partito. Di qui è partita una tendenza alla restrizione della vita democratica […] ma di qui non si può assolutamente dire che sia derivata la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica da cui deriva il suo carattere democratico e socialista.
La durezza della lotta contro le opposizioni interne è fino a una certa fase giustificata, ma «il grave errore commesso da Stalin fu di aver illecitamente esteso questo sistema […] alle situazioni successive, quando non era più necessario». Lo spiegare con il sabotaggio o con il tradimento ogni lacuna o ritardo del sistema, inoltre, non solo creò una situazione di «inaudite violazioni della legalità socialista», ma impedì anche di riconoscere e affrontare una serie di problemi oggettivi. Tuttavia, «la linea seguita nella costruzione socialista continuò ad essere giusta, anche se gli errori […] non possono non avere seriamente limitato i successi della sua applicazione». Il giudizio di Togliatti è dunque molto articolato. Anche riguardo alla denuncia kruscioviana, pur giudicandola «assolutamente necessaria», il leader del Pci esprime chiaramente la sua critica:
Sino a che ci si limita […] a denunciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell’ambito del “culto della personalità”. Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali […] suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell’altro siamo fuori dal criterio di giudizio che è proprio del marxismo.
Occorre, dunque, proseguire la ricerca e approfondire l’analisi, e tale compito spetta in primo luogo ai sovietici. Quanto al movimento comunista, «il complesso del sistema diventa policentrico e […] non si può parlare di una guida unica, bensì di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse»13.
10Intanto l’intervista – nella quale l’intera Direzione si riconosce14 – ha una forte eco nel mondo. Da parte sovietica, preceduta da una lettera di Chruščëv a Togliatti, giunge una risoluzione del Pcus in cui, pur apprezzandone lo spessore e condividendone l’analisi, si critica il testo per l’uso del termine «degenerazione»15. Il Pci decide quindi di inviare una delegazione in Urss per un reciproco chiarimento. Nel corso dei colloqui i sovietici ribadiscono la loro critica per l’uso della parola «degenerazione», che giudicano «una formulazione trockista». Solo nell’incontro finale con Chruščëv la questione viene accantonata. Riferendo alla Direzione, gli inviati del Pci sottolineano «il mutamento di tono», dovuto al diradarsi del timore che l’intervista di Togliatti potesse essere «un’arma di lotta» nel movimento comunista internazionale. Quanto a quest’ultimo, i sovietici intendono regolarne i rapporti interni «sul piano dei contatti bilaterali», respingendo invece l’idea di al policentrismo16. Tuttavia, sottolinea Amendola, «il fatto nuovo è questo tipo di rapporto che si è creato coi compagni sovietici, da partito a partito». Il gruppo dirigente del Pci, quindi, conferma la propria posizione17. È una «affermazione di autonomia» – scrivono Gozzini e Martinelli – che «non va sottovalutata e differenzia profondamente il Pci dal Pcf». «La possibilità del dissenso […] viene difesa pregiudizialmente come nuova base di metodo nelle relazioni tra Pci e Pcus»18. E in effetti a partire dal 1956 queste ultime si svilupperanno sempre più in questi termini, nel quadro di un legame molto forte ma al tempo stesso anche apertamente critico19.
11Sulla questione Stalin, intanto, Togliatti torna nel rapporto al Comitato centrale di giugno, collocandola in un quadro storico più ampio e soffermandosi sugli anni Trenta:
Fu un periodo di tragica rottura e quasi di disfacimento dell’Europa. […] Il fascismo […] era al potere in Italia dal 1922. Andò al potere in Germania. Dominava in tutti i paesi balcanici. Un regime di tipo fascista esisteva nella Polonia. Il fascismo scatenò una guerra civile e una guerra vera e propria per riuscire a distruggere il regime democratico e repubblicano nella Spagna. Giunse a conquistare, con le intimidazioni e con le armi, l’Austria e la Cecoslovacchia. Nei paesi di cosiddetta democrazia occidentale, prevaleva nella classe dominante la tendenza al compromesso […]. È in questo periodo che si collocano le giuste ed efficaci azioni dell’Unione Sovietica […] per ispirare e guidare […] tutte le forze democratiche e tutti i popoli dell’Europa a una conseguente difesa della democrazia […]. Fu una lotta ostinata, lunga, paziente, che i dirigenti dell’Unione Sovietica condussero per riuscire a far prevalere quella linea di collaborazione delle forze democratiche avrebbe potuto salvare il mondo dagli orrori della seconda guerra mondiale.
Oggi è facile dimenticare queste cose, e rappresentarci la realtà come se ci fossero stati nell’Unione Sovietica soltanto degli assassini e di qua degli agnelli […] in adorazione davanti agli ideali della democrazia! Questa rappresentazione non ha niente a che fare con la realtà. L’Unione Sovietica fu, in quel terribile decennio della storia d’Europa, il baluardo più forte, il difensore più conseguente dei principi della democrazia, della libertà e della pace. Per questo trascinò dietro a sé, con una politica giusta, le grandi masse popolari di tutto l’Occidente.
Quindi Togliatti rivendica il contributo specifico fornito dai comunisti italiani in quella fase:
Facemmo, dietro l’ispirazione che ci veniva dai comunisti sovietici, una grande politica democratica, socialista e di pace. Questo fu e rimane il nostro merito storico principale […]. Correggemmo errori di valutazione, errori di strategia e di tattica che avevamo compiuto nel periodo precedente […]. Il Fronte popolare […] fu il più grande tentativo fatto negli ultimi decenni per dare un nuovo corso alla politica democratica nell’Europa e, direi, nel mondo intiero […]. Vero è che questo avveniva mentre nell’Unione Sovietica […] aveva luogo un’ondata di azioni illegali, di violenze, di violazioni della legalità rivoluzionaria […]. Noi non lo potevamo né sapere né immaginare. La nostra fiducia e solidarietà operante con il Partito comunista dell’Unione Sovietica deriva proprio dal fatto che sotto l’ispirazione e la guida di quel partito sviluppavamo quella grande politica20.
La denuncia degli errori fatta da Chruščëv, pure «per alcuni aspetti non felice», «e l’azione iniziata […] per correggerli sono atti eminentemente positivi. La correzione doveva essere fatta […] e avrà come conseguenza il rafforzamento del carattere democratico della società socialista», oltre che effetti positivi «sullo sviluppo del movimento comunista» in tutto il mondo. Certo, prosegue Togliatti, «dalle gravi denunce e critiche di oggi la persona di Stalin esce molto diversa da quella che ci eravamo rappresentata. Non esce però distrutta. Dovrà ricevere nuove dimensioni. Si presenta come una personalità profondamente contraddittoria […]. A un massimo di cose buone andava accoppiato in essa un massimo di cose cattive».
12Quanto alla «corresponsabilità» del gruppo dirigente del Pci, essa «esiste perché noi abbiamo accettato, senza critica, una posizione fondamentalmente falsa circa l’inevitabile inasprimento della lotta di classe con il progresso della società socialista», oltre che per aver «introdotto nella nostra propaganda, il culto della persona di Stalin». Tuttavia, Togliatti aggiunge una precisazione importante: come comunisti italiani, osserva, «ci siamo guardati dal trasportare quel metodo all’interno del nostro partito»; anzi, lo stesso «modo come ci siamo sforzati di organizzare il nostro partito, di orientarlo e dirigerlo» è stato anche «un tentativo per superare di fatto molti tra i difetti che le critiche a Stalin mettono in evidenza»21. Anche su questo versante, intende dire il Segretario del Pci, un diverso approccio dei comunisti italiani è esistito e si è manifestato nella prassi.
I nuovi assetti del mondo, il «policentrismo», la «via italiana al socialismo»
13Il XX Congresso ha rilanciato il tema delle «vie nazionali». Il Pci è tra i partiti più interessati a sviluppare questo discorso, che si lega a quello delle nuove forme di collegamento tra le forze del movimento comunista internazionale. Allorché lo scioglimento del Cominform – organismo al quale egli non aveva mai dato eccessivo credito – viene ufficializzato, Togliatti ne dà un giudizio positivo:
Ne dovrebbe derivare, soprattutto, maggiore scioltezza e capacità di adeguare il nostro movimento alle condizioni e necessità dello sviluppo democratico e socialista in ogni paese. Ne dovrebbe derivare anche una maggiore autonomia nella valutazione critica dei progressi e anche degli errori fatti […]. Sarebbe un grande vantaggio […] se risultasse chiaro che non è vero che nel nostro movimento esista una situazione tale per cui, quando gli uni sbagliano, necessariamente tutti gli altri devono avere sbagliato o sbagliare nello stesso modo, oppure che quando gli uni progrediscono questo voglia dire senz’altro che per progredire tutti abbiano da fare le stesse cose22.
Su questi sviluppi, peraltro, non mancano preoccupazioni e visioni diverse anche all’interno del gruppo dirigente italiano. Pietro Secchia, esponente storico del Partito, molto legato all’Unione Sovietica, scrive: «Personalmente, più che di una maggiore autonomia di giudizio, sento la necessità […] che vi sia di più un giudizio collettivo e cioè che determinate decisioni […] siano prese per lo meno dopo un dibattito tra i dirigenti del movimento comunista internazionale»23.
14Per Togliatti, invece, il tema su cui insistere sull’onda del XX Congresso è quello della diversità delle vie al socialismo. In un’intervista al giornale jugoslavo «Borba» in occasione del 1° maggio, egli afferma:
Non vi è dubbio, per chi è abituato al ragionamento marxista e lo accetta, che, se parliamo di diverse vie di accesso al socialismo, lo facciamo, essenzialmente, perché riteniamo che queste vie sono determinate da tutta la struttura economica, sociale e politica dei singoli paesi, dal loro grado di sviluppo in tutti i campi, dalle loro tradizioni, dalle forme di organizzazione della loro vita civile, ecc. In quasi tutti i paesi esistono oggi situazioni e condizioni diverse da quelle della Russia [del 1917]. Non si dimentichi, poi, che sono diverse, oggi, le circostanze generali dello sviluppo economico e sociale. Vi è stato uno sviluppo delle forze produttive, si è quindi accresciuta la spinta oggettiva a una trasformazione socialista della società. […] Si tratta, dunque, di saper valutare queste diversità e questi cambiamenti e di ricavarne le necessarie conseguenze.
La diversità delle vie al socialismo è insomma, per Togliatti una verità elementare, quasi un’ovvietà, per chi ragiona sulla base del materialismo storico. Dunque «la cosa più importante […] non sta in questo, ma nella ricerca attenta di quelle forze sociali che possono muoversi insieme con la classe operaia nella marcia verso il socialismo», nella costruzione di relazioni con i partiti che le rappresentano, e in questo quadro di un’azione egemonica come quella che i comunisti italiani seppero esercitare durante i lavori dell’Assemblea costituente e che ora può essere rilanciata riuscendo, «con un grande lavoro tra i cittadini di tutte le opinioni politiche, a rendere irresistibile la richiesta delle riforme sociali che la nostra Costituzione prevede»24.
15Le accresciute possibilità di portare avanti coerentemente una «via italiana», tuttavia, non significano per il Pci rinchiudersi in una dimensione asfitticamente nazionale. Al contrario, già nelle settimane successive al XX Congresso si registra quello che Aldo Agosti ha definito «un nuovo dinamismo nell’iniziativa internazionale» del partito italiano, il quale avvia una serie di contatti bilaterali in nome di quel «policentrismo» che Togliatti teorizzerà compiutamente di lì a poco. A maggio si tengono sia un incontro riservato con il Pcf, sia colloqui Togliatti-Tito che segnano la riconciliazione con i comunisti jugoslavi25. Con Tito il dirigente italiano condivide la speranza di un graduale superamento dell’assetto bipolare. Come il leader jugoslavo, Togliatti intuisce «la portata storica del processo di decolonizzazione», e non a caso – osserva Marco Galeazzi – comincia a parlare «di “mondo” e non di “campo” socialista». Tuttavia, mentre Tito punta soprattutto sui «Paesi emergenti», Togliatti guarda in primo luogo «al movimento operaio dei paesi capitalistici» e alla «possibilità di una transizione al socialismo nell’Occidente avanzato». La sintonia tra i due leader, dunque, non produce una «convergenza strategica»26.
16Il mutamento degli assetti globali è comunque per il Segretario del Pci un punto centrale. Parlando alla Camera dei deputati, Togliatti osserva che il mondo «non è più diviso in due […] ma in tre campi»: oltre a quelli dei Paesi capitalistici e degli Stati socialisti, c’è «un sistema di Stati nuovi», che non aderiscono ad alcun blocco, ma «proclamano e difendono un principio generale, quello della coesistenza e della collaborazione fra tutti gli Stati, indipendentemente dai loro orientamenti» di fondo; sono i Paesi che hanno sottoscritto i «cinque punti di Bandung», per Togliatti «il più moderno e più attuale programma di politica estera che sia stato presentato» in quegli anni. Tali Paesi – prosegue – tendono a unire «la raggiunta indipendenza nazionale a un rinnovamento economico e sociale ottenuto seguendo vie nuove» rispetto a «quelle che il socialismo ha tracciato» sinora, e tuttavia si accostano «sempre più al mondo socialista», subendo l’influenza di ciò che lì viene sperimentato «per risolvere il grande problema del benessere e della giustizia sociale». Anche grazie a loro, infine, si creano le condizioni per una politica internazionale nuova, che «garantisca la collaborazione dei popoli e la pace». Ecco perché, conclude ottimisticamente, «la guerra fredda incomincia ad apparire cosa del passato»27.
17Nelle stesse settimane, Togliatti tiene quel rapporto al Comitato centrale che diventerà famoso con il titolo La via italiana al socialismo. Il Segretario fissa innanzitutto un criterio metodologico, che riguarda le modalità della discussione interna al partito, esortando a «collegarsi a Gramsci e a tutta la nostra dottrina» come lo strumento più adeguato a interpretare un mondo in rapida trasformazione.
Un marxista – afferma – non può essere come il somaro, che porta sulla groppa la botte con dentro il vino ma lui beve acqua. Il marxista deve bere sempre il vino della dottrina che egli possiede. Non può bere né il brodo insipido delle frasi fatte e stancamente ripetute, né l’acqua sporca dei rifiuti di dottrine di altra provenienza, o dei pettegolezzi che possano essergli posti sotto il naso dall’avversario.
Quindi egli torna a sottolineare il «mutamento delle strutture oggettive del mondo», nel quale emerge «la tendenza dei nuovi popoli e Stati […] a non più seguire la via del capitalismo», mentre anche il campo dei Paesi socialisti si estende e si diversifica. «La marcia verso il socialismo assume così forme più ampie e pone problemi nuovi […] in ogni paese […] si presentano possibilità reali e nuove di raccogliere forze sempre più ampie» per andare in tale direzione.
Di qui l’affermazione che il metodo democratico, nella lotta per il socialismo e nell’avanzata verso di esso, acquisti oggi quel rilievo che nel passato non poté sempre avere. Si possono cioè ottenere determinati e grandi risultati nella marcia verso il socialismo senza abbandonare questo metodo democratico, seguendo vie diverse da quelle che sono state battute e quasi obbligatorie nel passato, evitando le rotture e le asprezze che allora furono necessarie.
La possibilità di vie democratiche al socialismo – ovviamente sempre sulla base della lotta e dell’azione di massa – è dunque vista da Togliatti come effetto della crescita del movimento comunista, dell’allargarsi del fronte dei Paesi che non intendono seguire la via capitalistica, del diffondersi delle idee di emancipazione sul piano globale. Ne deriva che la tendenza ad andare «verso il socialismo» può essere fatta propria non solo da partiti non comunisti, ma «anche da organizzazioni e movimenti che non si dicano socialisti», e dunque «si pone […] in modo nuovo» anche il problema dell’unità di uno schieramento molto più vasto e composito rispetto al passato. «Si creano così diversi punti o centri di orientamento e di sviluppo. Si crea […] un sistema policentrico». Tra i partiti comunisti vanno altresì sviluppati i «rapporti bilaterali», gli scambi di idee e di esperienze, e questo può consentire anche di estendere i rapporti con «movimenti di orientamento socialista, non comunisti» e di «risolvere in modo nuovo le questioni dell’avvicinamento tra diversi settori del movimento operaio»28.
18Sono considerazioni molto innovative, che preludono a quel «nuovo internazionalismo» che sarà poi sviluppato da Luigi Longo negli anni della sua segreteria29. Ma innovazioni altrettanto significative sono compiute da Togliatti sulla questione dello Stato, da sempre centrale nella teoria marxista e nella storia del movimento comunista.
Prima Marx ed Engels e in seguito Lenin – prosegue il leader del Pci – […] affermano che l’apparato dello Stato borghese non può servire a costruire una società socialista […] deve essere dalla classe operaia spezzato e distrutto […]. Questa non era la posizione originaria di Marx ed Engels: fu la posizione cui essi giunsero dopo la esperienza della Comune di Parigi e fu particolarmente sviluppata da Lenin. Questa posizione rimane pienamente valida, oggi? Ecco un tema di discussione. Quando noi, infatti, affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando le forme parlamentari, è evidente che correggiamo qualche cosa in questa posizione, tenendo conto delle trasformazioni che hanno avuto luogo e che si stanno ancora compiendo nel mondo.
È un’acquisizione teorica di non poco conto, che raccoglie spinte in tal senso provenienti da settori del partito e della sua intellettualità, e che sarà uno dei punti d’attacco delle critiche cinesi alle posizioni di Togliatti. Anche sul pluripartitismo, il leader del Pci fa affermazioni impegnative: «Ammettiamo senza difficoltà che in una società dove si costruisce il socialismo possano esserci diversi partiti, di cui alcuni collaborino a questa costruzione», e che «la estinzione stessa dei partiti» potrebbe giungere solo «in conseguenza dell’affermarsi di una società socialista unitaria, come il risultato di un processo che investa ugualmente tanto il partito comunista quanto gli altri partiti che con esso collaborano».
19Quanto alla «via italiana», essa ha nella Costituzione un cardine fondamentale, anche perché l’attuazione del dettato costituzionale delineerebbe di per sé «una democrazia di tipo nuovo». In questo senso quella del Pci è una linea «di conseguente sviluppo democratico […] nella direzione del socialismo attraverso l’attuazione di riforme di struttura previste dalla Costituzione stessa»; e se qualche incomprensione della linea c’è stata, «la più grave» è consistita nel considerare l’«affermazione del carattere democratico della nostra lotta» come «una specie di trucco». Da questo punto di vista, Togliatti ribadisce un giudizio positivo sul fatto «che si discutano problemi di principio perché questo contribuirà a liberarci, una volta per sempre, da una certa atmosfera di doppiezza»30. La natura profondamente democratica della politica del Pci viene dunque ribadita a chiare lettere: «Chi si immaginava stessero nascosti fra le righe chi lo sa quali sottintesi, in realtà è chi non si sentiva d’accordo con i giudizi e i compiti assai chiaramente formulati».
20«Via democratica», però, non vuol dire «via parlamentare», ma – precisa Togliatti –:
una via di sviluppo verso il socialismo che tiene conto delle condizioni già realizzate e delle vittorie già conseguite. Siccome queste vittorie hanno creato una larga base di sviluppo democratico, la via italiana è una via la quale prevede uno sviluppo sul terreno democratico, di rafforzamento della democrazia e di sua evoluzione verso determinate, profonde riforme sociali.
È insomma lo sviluppo conseguente di quella strategia gramsciana dell’egemonia che il carattere stesso del Pci come partito di massa e il contesto della democrazia italiana rendono possibile sperimentare. Prosegue dunque Togliatti:
La utilizzazione del parlamento è una delle possibilità […] per ottenere delle profonde riforme di struttura. Perché questa possibilità possa realizzarsi occorrono però determinate condizioni. Occorre un parlamento che sia veramente specchio del paese […] e occorre un grande movimento popolare che faccia sorgere dal paese quelle esigenze che poi possano essere soddisfatte da un parlamento in cui le forze popolari abbiano ottenuto una rappresentanza abbastanza forte.
Occorre inoltre che
venga spezzato […] tutto quel sistema di costrizioni, di coercizioni, di intimidazioni, di terrorismo spirituale, cui si ricorre in Italia in misura sempre più larga […]. Dobbiamo tener presente quello che diceva Lenin circa il carattere illusorio della democrazia borghese. Noi possiamo oggi mettere fine, in parte e anche in gran parte, a questo carattere illusorio, possiamo cioè creare un terreno veramente democratico sul quale si possa vittoriosamente svolgere la lotta per il socialismo, così come prevedevano i classici del marxismo. Ma perché si crei questo terreno, perché esso terreno esista e sia ampio, anche per questo è necessaria una forte lotta delle masse, una larga azione nel paese31.
Nella strategia del Pci, dunque, iniziativa parlamentare e istituzionale e iniziativa di massa, azione politica «di vertice» e spinta «dal basso» sono elementi assolutamente complementari, entrambi caratteristici della «via democratica al socialismo».
21Il Pci intanto continua a tessere la sua rete di contatti internazionali. A luglio c’è un nuovo incontro riservato con il Pcf, nel quale però tramontano le ipotesi di azione comune emerse a maggio, cosicché l’unico accordo siglato riguarda uno scambio di osservatori che durerà appena un paio d’anni32. A settembre si tiene l’VIII Congresso del Partito comunista cinese: negli incontri con la delegazione italiana, Mao dà un giudizio positivo sulla «denuncia degli errori di Stalin» operata da Chruščëv, mentre i comunisti italiani devono spiegare la loro posizione sul policentrismo, vista «come di una certa opposizione al Pcus»; per i cinesi, «c’è un solo centro: l’Unione Sovietica», anche se – aggiungono significativamente – «ognuno è responsabile a casa sua»33. Il mese seguente, infine, c’è un altro incontro pubblico tra comunisti italiani e jugoslavi, da cui emergono una sostanziale sintonia e il ritorno a relazioni normali tra i due partiti34. «Via italiana» e «nuovo internazionalismo» sembrano dunque poter procedere di pari passo.
Togliatti e il Pci di fronte ai «fatti d’Ungheria»
22Nelle settimane successive la situazione internazionale subisce altri scossoni. Alla fine di giugno c’è la rivolta degli operai di Poznań, che vede una differenziazione pubblica nel gruppo dirigente comunista, con l’articolo del leader della Cgil Di Vittorio, il quale parla di «malcontento diffuso» tra gli operai polacchi, e quello di Togliatti (La presenza del nemico), che insiste sugli elementi di provocazione promossi dagli Stati Uniti35.
23Intanto in Polonia Władysław Gomułka, che era stato rimosso dalla carica di Segretario del Partito nel 1949 e imprigionato nel 1951-54, è designato dall’Ufficio politico del Poup come nuovo Segretario; seguono giorni di tensione e l’improvvisa visita di Chruščëv, che infine accetta la nuova situazione. Nel discorso di insediamento, Gomułka rivendica la diversità delle vie al socialismo, attacca il «sistema» del culto della personalità e fa autocritica per Poznań, promettendo il miglioramento del livello di vita e la implementazione dei Consigli operai36. In un telegramma del 23 ottobre al vertice del Pcus, Togliatti afferma che in Polonia il Partito avrebbe potuto «perdere il controllo della situazione», con il rischio di dovere poi «cercare di dominarla con la forza», e critica le divisioni manifestatesi all’interno del gruppo dirigente sovietico e tra questo e quello polacco37. In sostanza, la sua impressione è quella di un inquietante campanello d’allarme38.
24Negli stessi giorni, in Ungheria, si tengono manifestazioni per commemorare Rajk, condannato a morte nello stesso ’49, e chiedere la revisione del processo e il ritorno al potere di Imre Nagy, il comunista riformatore alla guida del governo nel 1953-55, poi espulso dal Partito e appena riammessovi39. Il 22 ottobre un’assemblea del Politecnico di Budapest e del Circolo Petöfi vara una piattaforma di sedici punti, che chiede la fine della presenza di truppe sovietiche nel Paese, un processo al segretario del Partito Rákosi e al capo della Polizia per la sicurezza dello Stato (Avh) Farkas, il ripristino della vecchia bandiera nazionale ed elezioni pluripartitiche40. Il 23 si svolge un corteo pieno di bandiere con lo stemma della repubblica tagliato (che diverrà l’emblema della rivolta), il quale chiede l’«indipendenza dell’Ungheria» e «Nagy primo ministro», contestando il governo e l’Unione Sovietica. Nagy pronuncia qualche parola dal Palazzo del Parlamento, anche se l’appellativo di «compagni» rivolto ai manifestanti e il tono interlocutorio non vengono molto apprezzati. Intanto, mentre una parte dei manifestanti abbatte la statua di Stalin, altri assediano e poi assaltano le sedi della radio, del giornale del Partito e del Partito stesso, ciò a cui seguono le prime vittime da entrambe le parti41. La rivolta è seguita dalla richiesta da parte del governo di un intervento di truppe sovietiche, che si trovano dinanzi a una vera e propria «guerriglia di strada», ma anche dalla nomina a capo del governo di Nagy. Quest’ultimo chiede ai rivoltosi di deporre le armi, promettendo l’esenzione dai processi e «la sistematica democratizzazione del nostro paese»42. Nei suoi Diari, Luciano Barca – allora direttore dell’edizione torinese de «l’Unità» – segnala, oltre al sorgere di «consigli operai» in varie fabbriche, «la presenza, in mezzo alle masse che lottano in nome del XX Congresso […] di gruppi di provocatori, veri e propri commandos cui nel modo più idiota la vecchia classe agraria e il clero legato al card. Mindszenty danno il loro aperto appoggio» 43.
25Il Pci prende posizione con un editoriale di Ingrao – Da una parte della barricata – che esorta a scegliere «tra la difesa della rivoluzione socialista e la controrivoluzione bianca»; poi con un comunicato, in cui ribadisce che «il fatto essenziale è che si doveva respingere e che è stato respinto un attacco controrivoluzionario»44. Il 25 Nagy annuncia alla radio l’inizio di negoziati sulle relazioni con l’Urss e il ritiro delle truppe sovietiche, il cui intervento – aggiunge – «è stato reso necessario dagli interessi vitali del nostro ordine socialista». Intanto János Kádár ha sostituito Ernő Gerő alla guida del Partito, ora denominato Posu (Partito operaio socialista ungherese), confermando l’avvio del negoziato con l’Urss sulle questioni più scottanti. Lo stesso Comitato centrale approva l’istituzione dei Consigli operai e si impegna a costruire «un’Ungheria sovrana, indipendente, democratica e socialista». La rivolta però non si ferma: i manifestanti premono davanti al Parlamento e la polizia spara, facendo decine di morti; si susseguono proteste pacifiche e azioni armate dei rivoltosi e dure reazioni di esercito e polizia. Lo stesso Nagy afferma che al «movimento di manifestanti pacifici […] si sono aggiunti putschisti controrivoluzionari». Il 27 egli forma un governo comprendente anche non comunisti, che il giorno dopo ordina il «cessate il fuoco» e annuncia il ritiro delle truppe sovietiche, lo scioglimento dell’Avh e il ripristino della vecchia bandiera nazionale. Si tratta, inoltre, per inglobare gli insorti nell’esercito regolare, e si annunciano riforme nell’agricoltura. Il 29 inizia il ritiro delle truppe sovietiche da Budapest, mentre dirigenti come Gerő e Hegedűs vengono fatti espatriare in Urss. Il 30, infine, è abolito il monopartitismo, si costituisce un nuovo governo con rappresentanti del Partito socialdemocratico, e si ribadisce l’intenzione di chiedere all’Urss «di ritirare tutte le proprie forze armate dall’Ungheria»; su quest’ultimo punto un’affermazione di disponibilità proviene da una risoluzione del Pcus sul rispetto della sovranità ungherese e sulla necessità di rivedere il tipo di relazioni coi vari Paesi del blocco sovietico. I rivoltosi parrebbero aver vinto; in sostanza, solo la richiesta di uscita del Paese dal Patto di Varsavia non è accolta, e tuttavia – come ha scritto György Dalos – «questa era una richiesta a cui nessun governo ungherese poteva venire incontro». In ogni caso i risultati raggiunti «non ebbero nessun effetto» sugli insorti45.
26Nelle ore successive, infatti, mentre l’ex dirigente del Partito dei piccoli proprietari Dudàs, che non riconosce il governo Nagy, guida un gruppo armato all’occupazione del ministero della Difesa, si svolge una spietata «caccia al comunista». La sede del Posu a Budapest è assaltata con artiglieria pesante: dopo varie ore alcuni funzionari escono con le braccia alzate e una bandiera bianca, ma vengono linciati o fucilati sul posto, e i loro cadaveri appesi agli alberi; tra i morti c’è anche il segretario cittadino del Partito, un moderato vicino a Nagy. Si susseguono fatti che – scrive ancora Dalos – ricordano «la furia degli ufficiali bianchi dopo il rovesciamento della Repubblica dei Consigli, nell’agosto del 1919». È a questo punto, secondo Victor Sebestyen, che i sovietici optano per il secondo intervento46. Anche in Italia si verificano aggressioni a sedi del Pci e dell’«Unità»47. Intanto la situazione internazionale si è ulteriormente aggravata: il 29 Israele ha attaccato l’Egitto, secondo un piano orchestrato con Francia e Gran Bretagna, che il giorno dopo iniziano a bombardare gli aeroporti egiziani48.
27Le ripercussioni dei fatti ungheresi nel Pci sono pesanti. Il 29 viene redatta una lettera di dissenso di centouno intellettuali comunisti (fra cui Carlo Muscetta, che ne fu il primo estensore, Alberto Caracciolo, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Paolo Spriano), che chiedono «un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito»49. «Poli di contestazione» emergono – soprattutto tra gli intellettuali – a Roma (la sezione “Italia”, la redazione di «Paese Sera», dirigenti come Natoli e Lombardo Radice); Milano (Fortini, Rossanda, Occhetto, ma anche Feltrinelli e gli studiosi che fanno capo al suo Istituto)50; Torino (dove la cellula “Giaime Pintor” della casa editrice Einaudi lancia un Appello ai comunisti, chiedendo che «sia sconfessato l’operato della Direzione», e si dichiari la «piena solidarietà» coi rivoltosi e l’«incitamento» a dirigenti e «masse popolari» sovietici a battersi per un radicale rinnovamento). La nota a margine di Togliatti a questo documento è molto dura: «Controrivoluzione aperta!»51.
28Pochi giorni prima, scrivendo a Muscetta, il leader del Pci sottolineò che il partito italiano non aveva «avuto alcuna esitazione […] circa le critiche che si sono imposte dopo il XX Congresso», ponendosi anzi «alla testa di tutti gli altri, anche dei compagni russi, che, dopo aver posto le questioni, non hanno dato prova di saper coglier[n]e tutte le implicazioni». Sia in Polonia che in Ungheria, proseguiva Togliatti, andava criticato «il ritardo col quale si è affrontata la situazione. […] Non si può, in pari tempo, tenere Rákosi a capo del governo e lasciare che i compagni gridino che è un assassino […]. Tutta questa agitazione non poteva che contribuire alla preparazione di una sommossa», e una volta scoppiata la rivolta armata «non potevamo che augurarci apertamente che fosse schiacciata». Due quindi sono stati gli assi portanti della posizione del Pci: «porre con chiarezza e come decisivo il problema del potere», ma anche «non esitare a dire che il partito [ungherese] ha commesso errori gravi», che sono all’origine della sommossa52.
29Tutto il Pci intanto è scosso da una discussione aspra e serrata. La Cgil deplora l’intervento sovietico, con un comunicato della Segreteria che indica nei fatti ungheresi «la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione politica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari»; il Segretario generale, Giuseppe Di Vittorio, conferma tale posizione, diventando, assieme al deputato Antonio Giolitti, il punto di riferimento dei dissenzienti all’interno del Pci53.
30Il 30, un articolo di Togliatti stigmatizza l’«incomprensibile ritardo dei dirigenti» ungheresi «nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti […] che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza che investivano la linea seguita nella marcia verso il socialismo»; ma aggiunge che «alla sommossa armata […] non si può rispondere se non con le armi»54. Lo stesso giorno, il Segretario detta un secondo telegramma al Pcus, in cui descrive la situazione interna al Pci e il coagularsi del dissenso attorno a Di Vittorio, giudica il governo che fa capo a Nagy in marcia «verso una direzione reazionaria», ed esprime «preoccupazioni» sul mantenimento della collegialità nel gruppo dirigente sovietico, la cui eventuale rottura avrebbe «conseguenze […] molto gravi per l’intero movimento»55. Il Cc del Pcus gli risponde il giorno dopo, esprimendo un’identità di vedute sulla situazione ungherese e definendo «infondati» i timori di Togliatti56.
31Nella Direzione del Pci, il Segretario individua due posizioni sbagliate: «Tutto questo avviene perché c’è stato il XX Congresso. Posizione falsa perché getta a mare tutto ciò che di nuovo è stato e viene fatto», e quella secondo cui «la sommossa è stata democratica e socialista e dovevamo sostenerla fin dall’inizio». Per Togliatti, la critica anche aspra va benissimo, ma non si può legittimare la rivolta armata nei Paesi socialisti. In ogni caso – aggiunge – «si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia». Con lui concorda tutto il gruppo dirigente, eccetto Di Vittorio, secondo il quale «l’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne le lezioni. Bisogna modificare radicalmente i metodi di direzione nei paesi di democrazia popolare e cambiare anche la politica economica», democratizzando la pianificazione e dando più spazio alla produzione di beni di consumo. Anche Berlinguer sottolinea che «in Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause»; Ingrao rileva la «mancanza di un moto operaio a difesa del potere»; e Pajetta aggiunge: «Per andare avanti bisogna cambiare il modo di agire. Il conservatorismo è oggi il nemico principale. […] Chi non capisce che bisogna dirigere in modo nuovo non può dirigere il movimento operaio». Da tutti però la rivolta è condannata, e Di Vittorio viene aspramente criticato per la sua differenziazione pubblica. Conclude Togliatti: «In Ungheria non era in corso una discussione, vi era una sommossa contro il governo. […] In una simile situazione o si schiaccia la sommossa o si finisce per essere schiacciati»57. Scrivendo a Spriano il giorno dopo, il Segretario conferma questa linea: «In un paese dove il potere nostro non è troppo solido, è inevitabile che, iniziatasi una rivolta armata, questa […] metta capo alla controrivoluzione aperta, cioè al terrore bianco. Ciò indipendentemente dalla presenza di forze controrivoluzionarie attive sin dal primo momento». Le posizioni prese, conclude, sono «dettate dalla esperienza sicura della lotta di classe», e non a caso sono state assunte prima «di leggere ciò che si legge oggi nei giornali, cioè che in Ungheria è iniziato il pogrom anticomunista»58.
32Il comunicato della Direzione ribadisce che l’origine della crisi sta nella «insufficiente capacità di consolidare le alleanze della classe operaia e il lavoro comune di edificazione socialista con una politica che rispondesse alle strutture sociali, alla storia alle tradizioni nazionali», il che ha provocato «un distacco fra lo Stato e le masse», aggravato da «metodi burocratici di direzione»; ma conferma che «era dovere sacrosanto […] sbarrare la strada» al ritorno delle forze reazionarie59.
33Il Pci, dunque, pur affermando l’inevitabilità dell’intervento militare dinanzi alla rivolta armata, è fortemente critico verso i dirigenti ungheresi, per la loro incapacità di evitare che si giungesse a tale punto di crisi, di cui quindi sono ritenuti responsabili. Tale giudizio si ritrova anche nella relazione inviata da alcuni quadri del partito italiano che si trovano a Budapest in quei giorni, la quale peraltro costituisce una testimonianza preziosa sulla sommossa60.
34Intanto il gruppo dirigente sovietico, che inizialmente aveva optato per una soluzione pacifica del conflitto, il 31 decide il secondo intervento. I verbali del Presidium del Pcus di quei giorni, resi pubblici a cura dello storico Mark Kramer, dimostrano il peso dell’attacco anglo-francese a Suez nel determinare il mutamento di linea del gruppo dirigente del Pcus61. Il 1° novembre, ricevute notizie su movimenti di truppe sovietiche alla frontiera, Nagy decide di rompere con l’Urss e proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e la neutralità del Paese. Il giorno dopo Kádár e Münnich incontrano a Mosca i vertici sovietici, chiedendo il ritiro delle truppe, ma convenendo sulla necessità di fermare il precipitare della situazione. In Ungheria, mentre il cardinale Mindszenty chiede la restituzione di quelle che erano le proprietà della Chiesa, nel governo entrano anche il Partito dei piccoli proprietari e il Partito Petöfi. Il 4 il secondo intervento sovietico ha luogo. Nagy trova rifugio nell’ambasciata jugoslava, mentre Kádár forma un nuovo governo, di cui fanno parte vari ministri dell’Esecutivo precedente62. Il 12 i sovietici si ritirano; dieci giorni dopo Nagy e i suoi collaboratori sono arrestati.
35Per Togliatti, l’alternativa all’intervento sarebbe stata «l’anarchia e il terrore bianco». Esso, quindi, è stato «una dura necessità», che conferma l’urgenza di correggere gli errori del passato, procedere sulla linea del XX Congresso e «renderne esplicite tutte le conseguenze»63. La difesa delle ragioni dell’intervento sovietico procede quindi di pari passo con la critica di errori e contraddizioni già avviata nell’intervista a «Nuovi Argomenti». Al tempo stesso il giudizio di Togliatti sulle prese di posizione di molti intellettuali interni o vicini al partito è molto severo. Rispondendo a una lettera di Antonello Trombadori, che rilevava «perplessità, tentennamenti» suoi e un generale sbandamento degli intellettuali comunisti, il leader del Pci rifletteva sulla sommossa ungherese: «Non è stata una rivolta di contadini […] non è stata una rivolta operaia», vista «la ondeggiante partecipazione di operai su posizioni diverse […] e persino contraddittorie», ma più probabilmente «un movimento di ceto medio urbano e di strati di popolo […] fomentata da una parte del partito comunista contro l’altra», in cui «si è inserito […] l’intervento consapevole del nemico». Quanto alle posizioni prese dal Pci,
siamo stati guidati da un senso vigile di classe e da un senso di partito. Invece […] queste due cose, nei gruppi di compagni che tu sai, sono mancate, e soprattutto il senso di partito è scomparso in modo veramente pauroso. […] Le cose sono giunte […] a un punto tale che, se non si fosse trattato soltanto di giudizi politici su fatti lontani, ma di una lotta reale […] combattuta qui […] ci sarebbero stati nel partito gruppi di compagni che, imbrancati coi nemici di ogni natura, avrebbero preso le armi contro il partito stesso. […] voi del Contemporaneo […] avete giocato a Circolo Petöfi, senza capire come il giuoco sia pericoloso. Il Circolo Petöfi – intendo la irresponsabile agitazione aperta contro il partito – è, in condizioni acute, il primo passo della controrivoluzione. Nelle condizioni nostre, il primo passo dello sbandamento.
«Circa il giudizio sulle democrazie popolari – termina Togliatti in un breve post scriptum – l’esigenza che oggi sento è prima di tutto di non lasciarmi trascinare nella canea che oggi è facile scatenare»64.
36Tuttavia il leader italiano non intende rinunciare a una presa di posizione critica. Lo confermano i colloqui che si svolgono a Parigi dal 15 al 17 novembre tra il dirigente del Pci Velio Spano e una delegazione del Pcf per verificare la possibilità di un pronunciamento comune sulla situazione internazionale65. Aprendo i colloqui, Spano contesta a Thorez che non basta dire che si è «al fianco dei lavoratori ungheresi e dell’Armata rossa sovietica», «ma che bisogna spiegare che cosa ciò voglia dire quando, di fatto, non sembra che i lavoratori ungheresi siano dalla stessa parte dell’esercito sovietico, almeno nella loro grande maggioranza». La divergenza di analisi è netta. Vengono quindi preparate due bozze di un comunicato conclusivo. Nella bozza in italiano, si imputano gli eventi ungheresi a due fattori: «i gravi errori compiuti nella direzione economica e politica del Paese», e «la scissione e disgregazione delle file del Partito dei lavoratori, che avrebbe dovuto […] rimanendo unito, procedere[…] alle necessarie profonde correzioni». In mancanza di tutto ciò, «è stato possibile che una parte delle masse popolari si lasciasse trascinare a un movimento di carattere insurrezionale […] aizzato da nemici del potere popolare e del socialismo», nel quale si sono inseriti «in modo sempre più esteso e […] aperto gruppi e forze reazionarie e fasciste», provocando «una ondata di terrore bianco, il massacro in massa di buoni militanti […] l’avanzata minacciosa del vecchio fascismo». In questa situazione,
le forze sovietiche hanno costituito la sola possibile barriera a difesa di quei valori e di quelle posizioni che dovevano essere ad ogni costo difese […].
[…] il sopravvento in Ungheria di forze reazionarie […] avrebbe acceso nell’Europa orientale un focolaio di provocazioni di guerra, rendendo quasi certo lo scoppio di un conflitto armato. Il ricorso alla forza sovietica è stato, in queste condizioni, una dura necessità, di cui devono rendersi conto tutto il movimento operaio e tutti i buoni democratici.
La bozza si conclude con un richiamo ai «principi di piena e reciproca indipendenza e sovranità» che devono vigere nei rapporti tra Paesi socialisti, e alla «lotta perché sia posta fine alla politica dei contrapposti blocchi militari e tutte le truppe e basi militari straniere siano ritirate da tutti i Paesi»66.
37Sulla base di questo documento Togliatti fa giungere un emendamento in cui si ribadisce che
una correzione degli errori fatta al momento opportuno avrebbe senza dubbio evitato il movimento popolare che ha portato all’insurrezione, così come un legame più profondo con le masse avrebbe permesso al partito di dominare la situazione senza fare il primo appello alle forze sovietiche, provocando così una esasperazione del sentimento nazionale67.
È un’aggiunta non marginale, che completa e modifica l’analisi proposta. Non a caso, proprio sull’emendamento Togliatti si appuntano le critiche dei francesi, i quali vi leggono «un dissenso di fondo», escludendo a questo punto l’idea di un comunicato comune. Fajon accusa il Pci di avere la stessa posizione di Tito, mentre Thorez contesta la definizione della rivolta come «movimento popolare». Anche il giudizio sull’intervento sovietico come «dura necessità» è rigettato, mentre i dirigenti del Pcf parlano di «dovere di classe», sottolineando che «la lotta di classe non è ancora spenta nelle democrazie popolari» (Duclos). La divergenza riguarda anche il policentrismo, laddove per i francesi «c’è un solo centro, l’Unione sovietica» (Guyot), e la linea generale da tenersi rispetto alle difficoltà del movimento comunista. «Bisogna insistere sulle responsabilità del nemico di classe e non sui nostri errori, altrimenti tutto si sfascia», dice Jeannette Vermeersch, e Thorez aggiunge: «Oggi bisogna far fronte all’attacco dall’esterno, spezzando ogni tentativo di disgregazione dall’interno. […] Non siamo dunque d’accordo: né sull’insurrezione popolare; né su qualsiasi riserva […] alla solidarietà verso l’esercito sovietico; né su una qualsiasi formula che voglia dire che i sovietici debbono andare via dall’Ungheria»68.
38Dai colloqui di Parigi escono dunque confermate le distanze tra Pci e Pcf, non solo sull’Ungheria ma in generale sulle prospettive aperte dal XX Congresso, di cui gli italiani enfatizzano le potenzialità, mentre i francesi sottolineano soprattutto i rischi. In Direzione, Spano dirà: «Il nostro equilibrio deve farci sentire anche su scala internazionale, aiutando i compagni sovietici a sentire certi aspetti della realtà che ignorano»69.
39La posizione dei comunisti italiani – Togliatti in primis – appare dunque lontana da un allineamento acritico e dalla mera presa d’atto della situazione, che pure ne costituisce il punto di partenza. Anche nel giudizio sulla necessità dell’intervento sovietico, infatti, torna costantemente la sottolineatura degli errori del gruppo dirigente ungherese, una cui condotta più attenta e un cui legame più forte con le masse popolari avrebbe potuto evitare il precipitare della situazione. L’accento, quindi, è posto ancora una volta sul problema del rapporto partito-masse, il quale a sua volta rimanda alle questioni più generali dell’egemonia che caratterizzano gran parte dell’elaborazione del Pci.
L’VIII Congresso del Pci, l’«unità nella diversità», il rilancio della «via italiana»
Il “prezzo” pagato dal Pci per la sua presa di posizione in difesa dell’intervento sovietico in Ungheria non fu basso. Nei mesi seguenti usciranno dal Partito dirigenti come Fabrizio Onofri, Eugenio Reale e Antonio Giolitti, oltre a diversi intellettuali, a partire dallo scrittore Italo Calvino. Già in ottobre, per volontà soprattutto del leader socialista Nenni, si è avuta inoltre la fine del patto d’unità d’azione tra Pci e Psi, sostituito da un accordo di mera consultazione. Dopo l’Ungheria, Nenni ritiene che ormai «un abisso» separi socialisti e comunisti70. Il rischio dell’isolamento e dell’arroccamento settaria è dunque reale. Al contrario, il Pci riesce a “uscire dall’angolo”, rilanciando la propria prospettiva. In particolare, il XX Congresso il dramma ungherese inducono Togliatti e il suo partito ad approfondire la riflessione sul rapporto socialismo-democrazia e a precisare i caratteri della «via italiana al socialismo».
40All’VIII Congresso del Pci, il Segretario rivendica «una politica europea e mondiale nuova, fondata sulla rinuncia all’organizzazione dei blocchi militari». Il mondo stesso, infatti, «è diventato policentrico», e i due campi sono sempre più articolati al loro interno. In questo quadro, egli critica la «imitazione servile del modello sovietico» prodottasi in vari Paesi dell’Est europeo, riaffermando invece il «principio delle diverse vie di sviluppo verso il socialismo», che implica «un sistema di Stati socialisti […] in cui la sovranità dei paesi più piccoli non può essere limitata […] da interventi e pressioni degli Stati più forti». Quanto ai rapporti interni al movimento comunista, quest’ultimo «deve avere […] una sua unità», ma una «unità che si crei nella diversità e originalità delle singole esperienze». «Non vi è né Stato guida, né partito guida», afferma significativamente. «La diversità delle vie di avanzata verso il socialismo sgorga dalla storia, dalla economia, dallo sviluppo del movimento operaio», e il Pci deve seguire «una via italiana»71.
41La Dichiarazione programmatica con la quale si chiude il congresso riprende quasi alla lettera questi passaggi, ribadendo la «molteplicità» delle vie al socialismo (mentre è «errata e pericolosa la imitazione pedissequa […] delle misure adottate per la costruzione socialista nell’Unione Sovietica») e approfondendo i tratti della «via italiana», dotata ora di un preciso profilo programmatico – dalla riforma agraria alle nazionalizzazioni, dalla «introduzione di un sistema generale di sicurezza sociale» alla «difesa ed estensione della democrazia» –, strettamente legato alla stessa Costituzione repubblicana e al progetto di trasformazione in essa delineato72.
42In particolare, a essere rilanciata è l’idea delle «riforme di struttura». Esse – osserva Togliatti – «non sono il socialismo. Sono però una trasformazione delle strutture economiche che apre la strada per avanzare verso il socialismo», mirando intanto «a limitare e spezzare il potere economico dei monopoli». Tra di loro vi sono le nazionalizzazioni. Certo,
da sola, una nazionalizzazione può non significare grande cosa. Fatta in certi modi, può persino dare certi vantaggi a certi gruppi capitalistici […]. Ma le cose cambiano quando questa o altre misure […] siano parte integrante di una azione continua, di una lotta incessante […]. Allora anche l’intervento dello Stato nella vita economica può assumere un valore ben diverso da quello che ha quando il governo agisce come puro comitato d’affari dei gruppi monopolistici73.
È una notazione importante sul piano teorico. Anche sulla concezione dello Stato, insomma, Togliatti ribadisce innovazioni non secondarie rispetto a una lettura schematica di Marx e di Lenin. A decidere sono i rapporti di forza nella società, e le riforme di struttura – osserva Giuseppe Vacca – sono «la trama della via italiana al socialismo», che è democratica non solo per il suo metodo ma perché «la maturazione della classe operaia come nuova classe dirigente procede […] sul terreno di una progressiva estensione […] del controllo democratico sui processi della produzione e sullo sviluppo economico»74.
43All’indomani del Congresso, la strategia di Togliatti e del Pci viene contestata da Roger Garaudy, intellettuale di spicco del Partito comunista francese, che critica proprio il concetto di riforme di struttura e la possibilità di una via democratica al socialismo. Come osserva Agosti, non è escluso «che l’iniziativa francese debba essere inquadrata in una più ampia campagna “antirevisionista” ispirata dai sovietici, e diretta principalmente contro i partiti jugoslavo e polacco, ma intesa anche a mettere sull’avviso il Pci circa i limiti invalicabili dell’autonomia di ogni “via nazionale”»75. Nella sua replica, Togliatti rivendica la possibilità di una «via italiana», sottolineando il nesso tra riforme strutturali e mutamento della direzione politica del Paese, e quello tra lotte democratiche e lotta per il socialismo, oltre che la natura del Pci come partito che intende «fare politica» e non soltanto propaganda, stabilendo così «con le masse lavoratrici un legame che, prima di essere organizzativo, è stato ed è politico, derivante cioè dal fatto che il partito […] continuamente lavora per collocarsi alla testa delle masse nelle lotte che in ogni momento si presentano». In questo senso, «noi non separiamo mai la lotta economica da quella politica, la utilizzazione del Parlamento dalla azione delle masse, le riforme di struttura dalle lotte rivendicative»76.
44E in effetti proprio il respiro di massa della sua politica sarà uno dei fattori decisivi che consentirà al Pci di superare la crisi, pur perdendo nell’anno successivo circa duecentomila iscritti. Al tempo stesso, come osserverà Ingrao, a partire dal 1956 il Partito cercò di «respingere le tendenze ad una difesa dogmatica del passato e orientare i militanti e le masse ad una ricerca e ad una iniziativa sulle questioni venute alla luce», ovviamente con la consapevolezza che tale ricerca e «questo avanzamento del “nuovo” doveva realizzarsi nel fuoco di uno scontro politico mondiale in cui i gruppi dominanti dell’Occidente capitalistico tendevano a rompere lo schieramento di sinistra ed antimperialista», di cui invece bisognava ad ogni costo «mantenere la compattezza»77.
45Quanto a Togliatti, egli superò brillantemente la messa in discussione della sua leadership, riuscendo a presentarsi come il punto di equilibrio più avanzato tra le esigenze del Pci sul piano nazionale e la sua appartenenza al movimento comunista internazionale78. Quest’ultimo elemento, lungi dall’essere un fattore accessorio o, al contrario, un determinante elemento di “ritardo” per l’intera sinistra italiana, rimaneva un dato centrale e ineludibile. Come ha osservato Donald Blackmer, separarsi dal resto del movimento avrebbe significato per il Pci, «un partito non al governo, privo del supporto di forti sentimenti nazionalistici come quello di cui godeva Tito e dipendente per il suo prestigio in parte dai suoi rapporti internazionali […] virtualmente autodistruggersi». Molto più adeguata alla realtà storica appariva invece la linea della «unità nella diversità», che da allora più che mai il Pci porterà avanti79.
46Ricorderà Paolo Spriano, che pure nel corso del 1956 aveva avuto posizioni molto critiche: «Riscoprivamo la “via italiana al socialismo”. Lanciata da Togliatti come prospettiva storica nel 1944, quella via era parsa sbarrata con la fine del 1947. […] Con il marzo del 1956 essa viene rilanciata ed è un rilancio foriero di conseguenze positive». Da allora in avanti, «il Pci comincia ad acquisire una sua fisionomia originale, a farsi davvero alfiere delle “vie nazionali”, dell’autonomia dei vari partiti, del policentrismo», anche a costo di polemiche con il Pcus, con il partito cinese e con quello francese80. Si avviano infine nuovi rapporti con varie forze progressiste e antimperialiste, e si pongono le basi di quel ruolo centrale del partito italiano nel movimento comunista e progressista mondiale, che sarà sviluppato negli anni seguenti. È proprio nel 1956, dunque, che nel Pci – sulla base di un «rinnovamento nella continuità» apertamente rivendicato da Togliatti81 – riprende la riflessione su una strategia di avanzata al socialismo «adeguata alle condizioni della società italiana e, più in generale, dell’Occidente europeo»; e in questo quadro inizia un processo «di reale ricerca e di impegno per un nuovo internazionalismo»82.
Bibliographie
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Notes de bas de page
1 Il saluto di Palmiro Togliatti, in Pcus (1956), p. 435.
2 Ricordi e testimonianze in: Boffa (1959), pp. 37-49; Vidali (1974); Bufalini (1982), pp. 139-47; Cacciapuoti (1972), pp. 141-54.
3 Cfr. Righi (1996), pp. 57-60.
4 Togliatti (1984a), pp. 93-124.
5 Righi (1996), pp. 5-9.
6 Pajetta (1982), p. 59.
7 Righi (1996), pp. 12-20. Cfr. l’Introduzione di R. Martinelli, ivi, pp. xxxiv-xxxv.
8 Cfr. P. Ingrao, Il XX Congresso del Pcus e l’VIII Congresso del Pci, in Aa. Vv. (1971), pp. 153-54; Pajetta (1982), pp. 60-62; Amendola (1978), pp. 115-19; Agosti (1996), pp. 437-39.
9 Cfr. Höbel (2006), pp. 69-70. Corsivo mio.
10 Cfr. Agosti (1996), pp. 434-39; F. Benvenuti, Dall’“indimenticabile” 1956 al “destino dell’uomo”, Introduzione a Benvenuti (1985), vol. III, p. xxvi; Pajetta (1978), p. 127; Pajetta (1982), pp. 53-56.
11 P. Ingrao, Il XX Congresso del Pcus e l’VIII Congresso del Pci cit., pp. 154-55.
12 Cfr. Righi (1996), p. 51; Vacca (1994), p. 184; Gozzini - Martinelli (1998), p. 531.
13 Togliatti (1984a), pp. 125-147 (corsivo mio). Togliatti ribadirà il suo giudizio critico sul Rapporto segreto anche su «Rinascita» del gennaio 1957 (Considerazioni su una crisi che non c’è e sulle crisi che ci sono): «Non fu un documento atto a creare chiarezza ideologica […]. Fu uno sfogo, certo, una invettiva, che purtroppo è in parte astratta, perché isola del tutto alcuni elementi della realtà presentandoli poi in modo da far ritenere che quelli fossero tutto il reale».
14 Cfr. Righi (1996), pp. 51-85.
15 La lettera di Chruščëv a Togliatti, del 30 giugno 1956, è in Vacca (1994), pp. 190-93, e in Righi (1996), pp. 138-42. Per la risoluzione del Cc del Pcus, cfr. «l’Unità», 2 luglio 1956.
16 La relazione della delegazione Pajetta, Negarville, Pellegrini, in allegato alla riunione di Direzione del 18 luglio, è in Righi (1996), pp. 142-158. Un resoconto dettagliato è anche in Pajetta (1982), pp. 63-69.
17 Righi (1996) p. 126; «l’Unità», 3 luglio 1956.
18 Gozzini - Martinelli (1998), p. 549.
19 Sull’impatto del rapporto Chruščëv sul Pcf cfr., in questo volume, M. Di Maggio, Il Partito Comunista Francese, lo «choc» del 1956 e il movimento comunista dell’Europa occidentale, infra, pp. 111-24.
20 Togliatti (1984a), pp. 153-59.
21 Ivi, pp. 165-66.
22 Aa. Vv. (1968), pp. 29-33.
23 Collotti (1979), p. 324.
24 L’intervista sarà riproposta da «l’Unità» nel 72° anniversario della nascita di Togliatti: Togliatti: la nostra via al socialismo, in «l’Unità», 26 marzo 1965.
25 Agosti (1996), pp. 439-40; M. Galeazzi, Appunti sulle relazioni tra i comunisti italiani, francesi e jugoslavi (1948-64), in Romero - Varsori (2006), pp. 62-63.
26 Galeazzi (2005), pp. 138, 143, 150-51.
27 Togliatti (1984b), pp. 928-30.
28 Togliatti (1984a), pp. 153-59.
29 Cfr. Höbel (2010).
30 Strano destino, quello della categoria di «doppiezza»: usata da Togliatti per stigmatizzare le zone d’ombra e di ambiguità presenti in settori del Pci, e ribadire la dimensione strategica della via democratica, sarà utilizzata contro di lui, rovesciandone il senso, da larga parte della pubblicistica e della storiografia.
31 Togliatti (1984a), pp. 167-74.
32 Pajetta (1982), pp. 78-79; Gozzini - Martinelli (1998), p. 522.
33 Cfr. Righi (1996), pp. 190-92.
34 Pci (1957), pp. 154-56.
35 Righi (1996), p. 142; Höbel (2006), pp. 115-18.
36 Procacci (2000), pp. 347-48; Agosti (1999), pp. 185, 216-17.
37 Guerra (2005), p. 229.
38 Cfr. in questo volume, D. Stasi, Sul ’56 in Polonia, infra, pp. 61-74.
39 Cfr. in questo volume, M. Congiu, L’Ungheria: rivoluzione democratica o controrivoluzione. Un dibattito ancora in corso, infra, pp. 50-60.
40 Argentieri (2006), pp. 47-48.
41 Cfr. Dalos (2006), pp. 37-48, 202. Un’interessante ricostruzione degli eventi di quei giorni è in una relazione di alcuni militanti del Pci, che si trovavano a Budapest: Relazione sulla rivolta di Budapest, 1° novembre 1956, in Fondazione Gramsci (d’ora in avanti, FG), Archivio del Partito comunista italiano (d’ora in avanti, APC), Fondo Mosca, mf. 253, b. 16, fasc. 100, pp. 1-6. Sugli assalti alla radio e al giornale del Partito, cfr. Onu (1957), p. 28.
42 Dalos (2006), pp. 52, 60; Relazione sulla rivolta di Budapest cit., pp. 6-7. Cfr. Pajetta (1982), pp. 90-93; Argentieri (2006), p. 48. Il comunicato del 24 e l’appello di Nagy sono in Onu (1957), pp. 133-34.
43 Barca (2005), pp. 156-57.
44 [P. Ingrao], Da una parte della barricata a difesa del socialismo, in «l’Unità», 25 ottobre 1956.
45 Dalos (2006), pp. 68, 86-88, 97-101, 107-111, 203; Onu (1957) pp. 32-33, 135, 157-59. Cfr. M.R. Sciglitano, Pensavamo possibile un’Ungheria neutrale, intervista a György Konrad, in «il manifesto», 22 ottobre 2006.
46 Dalos (2006), pp. 76-77, 103-104, 122, 203; Barca (2005), pp. 159-60; Argentieri (2006), pp. 49-50, 58-59. Cfr. l’intervista a Victor Sebestyen in «la Repubblica», 3 ottobre 2006; Sebestyen (2006).
47 Agosti (1996), p. 455; Gozzini - Martinelli (1998), p. 601.
48 Procacci (2000), p. 376.
49 Spriano (1986), pp. 210-11; Ajello (1997), pp. 401-406, 535-38. Molti firmatari ritireranno la loro adesione dichiarando di aver inteso la lettera a fini di dibattito interno e respingendo l’uso fattone dalla stampa avversaria. Cfr. in questo volume, F. Chiarotto, Il Manifesto dei 101. Abbozzo prosopografico, infra, pp. 177-91.
50 Ingrao (1990), pp. 87-88; P. Ingrao, Il XX Congresso del Pcus e l’VIII Congresso del Pci cit., pp. 161-62; Righi (1996), pp. 219-22; Gozzini - Martinelli (1998), p. 591; Feltrinelli (1999), pp. 103-105.
51 Barca (2005), p. 158; Cellula “Giaime Pintor” della casa editrice Einaudi, Appello ai comunisti, 29 ottobre 1956, in FG, APC, Fondo Mosca, mf. 253, b. 16, f. 100.
52 Togliatti (2014), pp. 247-249.
53 Cfr. Guerra - Trentin (1997). Il comunicato della Segreteria della Cgil, del 26 ottobre, è in «Rassegna sindacale», 30 ottobre-15 novembre 1956. Cfr., in questo volume, F. Loreto, La Cgil e lo “strappo” di Giuseppe Di Vittorio, infra, pp. 211-26.
54 Höbel (2006), pp. 127-30.
55 Togliatti on Nagy, 30 October 1956: missing cable found, in «Cold War International Project Bullettin», 1996-97, n. 8-9, p. 357; Gozzini - Martinelli (1998), pp. 597-98.
56 Cfr. «Cold War International Project Bullettin», 1995, n. 5, p. 33.
57 Righi (1996), pp. 210-40.
58 Togliatti (2014), pp. 259-61.
59 Höbel (2006), pp. 151-61.
60 «In primo luogo […] alla base dei tragici fatti ungheresi sta il forte malcontento per le disagiate condizioni economiche degli strati più numerosi dei lavoratori […]. In secondo luogo […] in Ungheria le risoluzioni del XX Congresso sono state […] adottate con ingiustificato ritardo. In Ungheria si erano accumulati […] una serie di errori dei quali tutti parlavano, ma […] il CC del partito non prendeva nelle proprie mani l’iniziativa politica per […] mettersi alla testa del dibattito». Inoltre «durante il periodo della violazione della legalità socialista […] sono stati commessi numerosi e gravi crimini. Tutto questo aveva portato ad una estrema confusione ideologica fra gli stessi membri del partito» e «anche tra gli operai veniva a mancare la fiducia nel metodo di costruzione del socialismo in Ungheria» (Relazione sulla rivolta di Budapest cit., p. 7).
61 M. Kramer, New Evidence on Soviet Decision-making and the 1956 Polish and Hungarian Crises, in «Cold War International Project Bulletin», 1996-97, n. 8-9, pp. 367-68; The “Malin Notes” on the Crises in Hungary and Poland, 1956, ivi, pp. 385-410.
62 Dalos (2006), pp. 117-20, 125-28, 135-37; Onu (1957) pp. 37-40, 153-54, 161-62.
63 P. Togliatti, Per difendere la civiltà e la pace, in «l’Unità», 6 novembre 1956; Id., Ancora sui fatti di Ungheria, discorso all’VIII Congresso provinciale della Federazione bolognese del Pci, 18 novembre 1956, in Aa. Vv. (1968), pp. 97-102.
64 Togliatti (2014), pp. 262-65.
65 Galeazzi (2005), pp. 173-76; A. Höbel, Il Pci, il Pcf e i ‘fatti d’Ungheria’: una missione ufficiale a Parigi il 15-17 novembre 1956, in «Giano. Pace ambiente problemi globali», settembre-dicembre 2006, pp. 87-95. La relazione di V. Spano, Resoconto viaggio a Parigi (15-17 nov. 1956), in FG, APC, Fondo Mosca, mf. 198, b. 17, f. 101, è ora ivi, pp. 96-106.
66 Allegato n. 1 alla relazione Spano, in FG, APC, Fondo Mosca, mf. 198, b. 17, f. 101.
67 Allegato n. 3, ibidem. Il documento presente in APC è in francese.
68 Spano, Resoconto viaggio a Parigi (15-17 nov. 1956) cit., pp. 1-7 (nel testo pubblicato, pp. 97-104).
69 Righi (1996), p. 246.
70 Cfr. Righi (1996), pp. xlii, 193; Gozzini - Martinelli (1998), p. 603.
71 Togliatti (1984a), pp. 184-239.
72 Togliatti (2016), pp. 25-56.
73 Togliatti (1984), pp. 211-12.
74 Vacca (1974), pp. 372-73.
75 Agosti (1996), pp. 465-67.
76 L’intervento di R. Garaudy, Osservazioni critiche ai dibattiti e alle posizioni del nostro Congresso, e la Postilla di P. Togliatti sono entrambi in «Rinascita», dicembre 1956. La Postilla è anche in Togliatti (2016), pp. 153-63.
77 Gozzini - Martinelli (1998), p. 608; P. Ingrao, Il XX Congresso del Pcus e l’VIII Congresso del Pci cit., p. 163.
78 Cfr. S. Pons, Il fattore internazionale nella “leadership” di Togliatti (1944-1964), in «Ricerche di storia politica», 2002, n. 3, pp. 403-13.
79 D. L. Blackmer, Continuità e mutamento nel comunismo italiano del dopoguerra in Tarrow (1976), p. 98. Cfr. Blackmer (1968).
80 Spriano (1986), pp. 201, 215.
81 Gozzini - Martinelli (1998), p. 633.
82 G. Chiarante, Introduzione a AA. VV. (1986), pp. 10-11; Pajetta (1978), pp. 128-29.
Auteur
Professore a contratto di Storia contemporanea presso l’Università di Napoli Federico II, collabora con la Fondazione Gramsci di Roma, con l’Università della Tuscia e con l’Università di Cassino e del Lazio meridionale. Responsabile di redazione della rivista «Studi Storici», fa parte della redazione romana di «Historia Magistra». È autore dei libri Il Pci di Luigi Longo (1964-1969) (Esi 2010) e Luigi Longo, una vita partigiana (1900-1945) (Carocci 2013). Ha curato inoltre vari volumi sulla figura di Palmiro Togliatti e sulla storia del Pci.
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